giovedì 17 dicembre 2009

Episodi Medievali - Le Crociate.

Verso l’anno Mille, complice la spinta demografica ed economica che investe l’Europa in piena ripresa, e con essa la voglia da parte della Chiesa di liberarsi dell’ energia e della concorrenza del ceto cavalleresco - sempre in vena di scorribande e in costante cerca di nuovi feudi -, si assite al sorgere di una particolare forma di pellegrinaggio. Il 27 novembre 1095, nel famoso concilio di Clermont-Ferrand (città che, tra l'altro, darà i natali a Blaise Pascal), le parole di Urbano II (qui accanto ritratto nell'episodio in un affresco del XII sec.) danno il via a “quelle grandi gite di massa, organizzate dalla famosa agenzia turistica, la pontificia pax domini” (Riccardo Marasco), che in seguito verranno dette crociate.

Cruciata è in realtà un termine tardo, del XIII secolo, quando oramai il fenomeno si è istituzionalizzato ed è utilizzato dalla Chiesa contro molti dei suoi nemici politici (tacciati per l’occasione come infedeli, come gli eretici albigesi o Federico II, definito addirittura l’Anticristo). In origine l’invito di Urbano fu ad un pellegrinaggio - peregrinatio - di espiazione verso la Terrasanta. E in effetti di un pellegrinaggio si trattò, solo che fu un pellegrinaggio armato, come lo chiamano gli storici, perché, “visto che si passava per di lì”, Urbano invitò i pellegrini a dare un aiuto alla Chiesa d’Oriente contro gli infedeli.

Da ricordare, a proposito, che l’oppressione dei Turchi sulle comunità cristiane d’Oriente e sui pellegrini diretti a Gerusalemme non può essere considerata motivo decisivo per la crociata, visto che i cosiddetti “infedeli” , fin dai tempi di Maometto, erano stati assai tolleranti e permettevano a cristiani ed ebrei la professione del loro culto – in cambio del pagamento di una tassa – sennonché assicuravano loro forme di autorità e di autonomia che “i loro correligionari residenti nei territori cristiani non si sognavano neppure” (Vitolo) . Tra queste vie era anche la possibilità del pellegrinaggio a Gerusalemme, ma i cristiani sembravano esserselo dimenticati.

Comunque, dal 1095 al 1270 i cristiani in diverse ondate (se ne contano sette, alcuni arrivano a nove) cercheranno di riconquistare Gerusalemme, dando luogo oltre che ad una breve occupazione della città santa (1099-1187) ad una serie di episodi bislacchi (ragion per cui sotto mi concentrerò sulla prima e sulla quarta spedizione) e portando alla ribalta personaggi alquanto bizzarri.

Jacque Le Goff ha sostenuto che l'unico frutto della crociata è stata l' ALBICOCCA (al-braquq; Le Goff 1969, p.95), la cui coltivazione pare si diffuse in Europa proprio dopo le gite in Medio Oriente (ma alcuni smentiscono). Ad essa si aggiungano, per curiosità di Grattacapo, le cosiddette cavallette crociate, che invadono e "infestano in quel periodo parte dell'Abruzzo meridionale e della Campania, e a grandi nugoli il Tavoliere della Puglia".



I - Pietro di Amiens e il fanatismo dei Poveri

Il primo a recepire l’entusiasmo religioso suscitato dal movimento crociato fu un predicatore itinerante, tale Pietro di Amiens, detto l’eremita perché andava in giro vestito di stracci e in sella ad un asino [come si vede nell'illustrazione a fianco, tratta dal manoscritto pergamenaceo Roman du Chevalier du Cygne (1270 ca)] Personaggio di poca cultura ma di notevole eloquio, nel 1075 con la sua favella Pietro ruscì a mettere insieme un gruppo numeroso di poveri ed emarginati, male armati e privi di qualsiasi forma di organizzazione. On orda di più di 12.000 persone tra poveri, donne, fanciulli, insofferenti di ogni disciplina che si misero in marcia verso l’Oriente attraverso le valli di Reno e Danubio al grido “Dio lo vuole” (Deus le volt).

Il passaggio degli ardenti derelitti fu segnato ovunque da saccheggi e massacri di Ebrei, suscitando la reazione di vescovi e signori locali. Alla fine tuttavia, quelli che sopravvissero alle stragi e alla fatica del viaggio, tra cui vecchi, donne e bambini, arrivarono a destinazione. Una volto sul posto, furono massacrati dai Turchi.

Pietro fu uno dei pochi che riuscirono a salvarsi e attese a Costantinopoli l’arrivo della crociata “ufficiale” .

Quando arrivarono i crociati mandati dagli altri re europei, Pietro li seguì, come anche Wikipedia si cura di sottolineare, “in una posizione tuttavia non di eccellenza”.

Durante l'assedio di Antiochia cercò addirittura di fuggire, ma venne subito ricatturato. Dopo qualche mese riprese credibilità fra i crociati.

Una volta presa Gerusalemme, il suo sermone sul Monte degli Ulivi fu seguito dal saccheggio della città e dal massacro degli abitanti inermi della Città Santa: ebrei e musulmani.

II – Secondo tentativo

La seconda crociata (come le successive) fu un fallimento, tutti quelli che partecipavano perseguivano i propri obiettivi politici, con grande ira del pontefice, cercando ad esempio, come nel caso di Ruggero II, di fregarsi i domini Bizantini nel Peloponneso.

Il Saladino intanto riconquistò Gerusalemme nel 1187


III - Terza crociata

Come può il Saladino aver riconquistato la città Santa? La domanda trovò risposta nell'organizzazione della terza crociata, quella di Robin Hood. Vi partecipano Federico Barbarossa, Il re di Francia Filippo Augusto e Il re D’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone (foto a lato). Ma i risultati furono di nuovo scarsi, il povero Barbarossa addirittura morì annegato nel 1190 mentre attraversava il fiume Salef in Anatolia.


Niente di fatto. Gerusalemme rimane in mano agli infedeli.













4 – Quarta crociata: “clamorosa deviazione sul Bosforo”.

Innocenzo III ( il grande papa del centralismo pontificio etc. etc.) decise di riprovarci, bandendo nel 1198 una crociata col duplice obiettivo di 1) recuperare Gerusalemme alla cristianità e 2) ricondurre la Chiesa d’Oriente sotto la sovranità pontificia. Per problemi vari (tra cui la morte di Riccardo cuor di Leone) la partenza fu rinviata di anno in anno. Si riuscì a mettersi in moto solo nel 1202.

Nel 1202 i crociati si radunano a Venezia pronti per salpare e raggiungere l’Oriente via mare, ma giunti sul posto si accorgono malauguratamente di non avere i soldi necessari per pagare il trasporto. Che fare?

Il doge Enrico Dandalo prese in mano l’iniziativa e offrì il trasporto gratuito ai combattenti a patto che si facesse scalo a Zara, per recuperare città che si era data agli Ungheresi. I crociati accettano ed espugnano la città coi soliti saccheggi, mandando di nuovo su tutte le furie il papa. Si erano infatti dimenticati che gli ungheresi erano il popolo più cattolico dei Balcani, la cui conversione fu uno dei successi più eclatanti della chiesa d’occidente. Addirittura fu lo stesso pontefice ad inviare la corona con la croce storta (sta nella chiesa a Budapest ed è l’orgoglio dell’Ungheria post-comunista) al sovrano ungherese Stefano I nell’anno 1000. Inoltre il re ungherese, che prima della data era noto come principe Vaik e dopo fu nondimeno fatto santo (Bloch 1999, p.26), si era addirittura “iscritto” alla stessa crociata che gli aveva saccheggiato la città! Per tale ragione Innocenzo III decise di scomunicare la crociata. I diversi baroni dichiararono però di essere stati ricattati e costretti da Venezia alla sciagurata azione; il papa allora tolse loro la scomunica che andò completamente a carico dei veneziani.

Intanto dopo questo intoppi diplomatici i crociati riprendono il viaggio. E cosa succede?

Altro colpo di scena. Il doge riesce a convincere i capi crociati ad un nuovo cambiamento di programma: perché non puntare sulla conquista di Costantinopoli invece che di Gerusalemme? La città, capitale dell’impero romano d’Oriente è sicuramente più ricca della città santa, e poi Alessio, pretendente al trono, prometteva lauti compensi e partecipazione alla crociata se lo si fosse installato sul trono.

Ecco dunque che accade il fattaccio: “clamorosa deviazione sul Bosforo”. Costantinopoli fu presa e come d’uopo orrendamente saccheggiata nel 1204. Il Papa verde dalla rabbia.

Quando l’ingordigia del bottino si placò si provvide – sotto abile regia del Dandalo - alla spartizione del regno e alla fondazione dell’ impero latino d’Oriente. Un quarto di questo, assieme al titolo di imperatore, fu assegnato a Baldovino di Fiandra.

giovedì 12 novembre 2009

In memoria

Sabato 12 Settembre 2009 nel Duomo di Milano e in diretta su Rai1 si sono svolti i Funerali di Stato di Michael Nicholas Salvatore Bongiorno.

Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana, la più alta onorificenza della Repubblica Italiana, destinata a
"ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, della economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari" (dal sito del Quirinale)
gli era stata conferita ineccepibilmente nel 2004, per le sue chiare e limpide benemerenze acquisite verso la Nazione.

Dunque coerentemente il 9 Settembre 2009 il Consiglio dei Ministri con proponente il Presidente del Consiglio ha deliberato "l'
Assunzione a carico dello Stato delle spese per i funerali di Mike BONGIORNO, a norma della legge 7 febbraio 1987, n. 36".

Ma che cosa afferma la legge 7 febbraio 1987, n.36?

Esequie di Stato

A CHI SPETTANO

La legge 7 febbraio 1987, n. 36, recante "disciplina delle esequie di Stato" dispone che esse spettano alle massime autorità della Repubblica in carica, o dopo la cessazione di essa; possono inoltre essere rese, su delibera del Consiglio dei Ministri, a personalità che abbiano offerto particolari servizi alla Patria o cittadini che abbiano illustrato la Nazione, o cittadini caduti nell'adempimento del dovere o vittime di azioni terroristiche o di criminalità organizzata.


Ma questo Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana, che aveva acquisito benemerenze verso la Nazione nel campo...delle lettere?...delle arti? nel campo...e nel disimpegno di attività svolte a fini...sociali?...filantropici?...umanitari?...vabbé che aveva acquisito benemerenze verso la Nazione; e che in più era una personalità che aveva offerto particolari servizi alla Patria e un cittadino che aveva illustrato la Nazione; in pratica, chi era? che cosa faceva?
(Avvertenza per i puristi: questo è un tentativo di resa del parlato)

Era un presentatore di quiz e televendite.



Non può sfuggirci come tutti i suddetti solenni onori conferiti dalle Istituzioni e dallo Stato a un presentatore di quiz e televendite sia un sintomo, un simbolo, e un'ulteriore conferma del ruolo primario e imprescindibile che la televisione è venuta ad assumere nella società, nella politica e nello Stato in Italia, quasi fosse divenuta essa stessa un'Istituzione.
D'altronde, per suffragare questa tesi, è sufficiente ricordare come il nostro Presidente del Consiglio sia un imprenditore televisivo, Porta a Porta sia quasi assurta a ufficiosa "terza Camera" e la percentuale di cittadini che, secondo il Rapporto Annuale 2008 del Censis , segue abitualmente (almeno 3 volte a settimana) la televisione generalista è dell'85.6%, oltre a un 20,6% che guarda abitualmente la Tv satellitare e un 7,7% che usa il digitale terrestre.


Detto questo, cerchiamo di riportare Michael Nicholas Salvatore alla sua giusta dimensione e, per fare questo, ci avvarremo dell'analisi condotta da Umberto Eco nella sua "Fenomenologia di Mike Bongiorno" nel lontano 1961 (dopo solo 7 anni dalla nascita della televisione [1954]), la quale, pur essendo stata scritta ormai 48 anni fa, mantiene tutta la sua acutezza e forza espressiva, e rimane una valida esposizione dell'ideologia dell'Uomo medio(cre) (il mostro, pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista di PPP di cui abbiamo già parlato in questo intervento).

Umberto Eco - Fenomenologia di Mike Bongiorno
Diario Minimo (1963)
Riproduzione anastatica conforme all'originale verbatim ac litteratim; insomma l'ho copiata io a mano nella migliore tradizione dei frati amanuensi.

L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze. Tuttavia, poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l'evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare , ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno.

La situazione nuova in cui si pone al riguardo la TV è questa: la TV non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l'everyman. La TV presenta come ideale l'uomo assolutamente medio. A teatro Juliette Greco appare sul palcoscenico e subito crea un mito e fonda un culto; Joséphine Baker scatena rituali idolatrici e dà il nome a un'epoca. In TV appare a più riprese il volto magico di Juliette Greco, ma il mito non nasce neppure; l'idolo non è costei, ma l'annunciatrice, e tra le annunciatrici la più amata e famosa sarà proprio quella che rappresenta meglio i caratteri medi: bellezza modesta, sex-appeal limitato, gusto discutibile, una certa casalinga inespressività.

Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rappresenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato , essa rappresenta un traguardo. Se, secondo la nota boutade, la statistica è quella scienza per cui se giornalmente un uomo mangia due polli e un altro nessuno, quei due uomini hanno mangiato un pollo ciascuno - per l'uomo che non ha mangiato, la metà di un pollo al giorno è qualcosa di positivo a cui aspirare. Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio, si trova immediatamente a un livello minimale di evoluzione. La "medietà" aristotelica è equilibrio nell'esercizio delle proprie passioni, retto dalla virtù discernitrice della "prudenza". Mentre nutrire passioni in grado medio e aver una media prudenza significa essere un povero campione di umanità.
Il caso più vistoso di riduzione del superman all'everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita ( questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.

Per capire questo straordinario potere di Mike Bongiorno occorrerà procedere a una analisi dei suoi comportamenti, ad una vera e propria "Fenomenologia di Mike Bongiorno", dove, si intende, con questo nome è indicato non l'uomo, ma il personaggio.

Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta, biologicamente parlando, un grado modesto di adattamento all'ambiente. L'amore isterico tributatogli dalle teen-agers va attribuito in parte al complesso materno che egli è capace di risvegliare in una giovinetta, in parte alla prospettiva che egli lascia intravedere di un amante ideale, sottomesso e fragile, dolce e cortese.

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprenderne nulla.

In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. Di costui pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la metodologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di ua funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente quantitativo. In tal senso (occorrendo, per essere colto, aver letto per molti anni molti libri) è naturale che l'uomo non predestinato rinunci a ogni tentativo.

Mike Bongiorno professa una stima e una fiducia illimitata verso l'esperto; un professore è un dotto; rappresenta la cultura autorizzata. E' il tecnico del ramo. Gli si demanda la questione, per competenza.

L'ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quando, in base alla cultura, si viene a guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L'uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di far studiare il figlio.

Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore ("pensi, ha guadagnato già centomila lire: è una bella sommetta!").

Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le impietose riflessioni che lo spettatore sarà portato a fare: "chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno tipendio modesto! Ha mai avuto tanti soldi così tra le mani?"

Mike Bongiorno, come i bambini, conosce le persone per categorie e le appella con comica deferenza (il bambino dice: "scusi, signora guardia...") usando tuttavia sempre la qualifica più volgare e corrente, spesso dispregiativa: "signor spazzino, signor contadino".

Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d'Aramengo bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic.).

Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. E' paterno e condiscendente con gli umili, deferente con le persone socialmente qualificate.

Elargendo denaro, è istintivamente portato a pensare, senza esprimerlo chiaramente, più in termini di elemosina che di guadagno. Mostra di credere che, nella dialettica delle classi, l'unico mezzo di ascesa sia rappresentato dalla provvidenza (che può occasonalmente assumere il volto della Televisione).

Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi . Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avvicina mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-positivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all'occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui.

Non accetta l'idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. Nabucco e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce ai dati come un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur. Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di conseguenza conservatrice, paternalistica, immobilistica.

Mike Bongiorno è privo di senso dell'umorismo. Ride perché è contento della realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l'interlocutore sia simpaticamente anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si nasconda una verità, comunque non lo considera come veicolo autorizzato di opinione.

Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non manca d informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa..."mi dica un po', si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos'è di preciso questo futurismo?"). Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l'opinione dell'altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse.

Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: "cosa vuol rappresentare quel quadro?" "come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?" "com'è che viene in mente di occuparsi di filosofia?".

Porta i clichés alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalle suore è virtuosa, una ragazza con le calze colorate e la coda di cavallo è "bruciata". Chiede alla prima se lei, che è una ragazza così per bene desidererebbe diventare come l'altra.; fattogli notare che la contrapposizione è offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando l'educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffes non tenta neppure di usare perifrasi: la perifrasi è già una agudeza e le agudezas appartengono a un ciclo vichiano cui Bongiorno è estraneo. Per lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l'artificio retorico è una sofisticazione. In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quando la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provocazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei critici e del pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l'uomo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta portando la gaffe a dignità di figura retorica, nell'ambito di una etichetta omologata dall'ente trasmittente e dalla nazione in ascolto.

Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita a quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortato dall'esistenza del migliore de mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita.

Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi d'inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.

1961

venerdì 16 ottobre 2009

Caffè Filosofico

Il 15 Ottobre è iniziata a Firenze la "Festa della Creatività" arrivata alla quarta edizione; tra gli innumerevoli eventi c'è anche un "Caffè Filosofico" che avrà come tema "Filosofia, politica, religione" e gli argomenti trattati saranno: l’incontro/scontro fra differenti culture religiose in una società sempre più globale, il senso del “sacro”, il rapporto delicato fra la politica e la religione e fra la Chiesa e lo Stato.

Gli incontri più interessanti credo che siano quelli di Sabato 17 Ottobre e quelli di Domenica 18 Ottobre:
Sabato 17 ottobre, ore 16,00 Religione e politica SERGIO GIVONE, EMILIO GENTILE, CARLO GALLI
Domenica 18 ottobre, ore 16,00 Stato e Chiesa SERGIO CARUSO, GUSTAVO ZAGREBELSKY, PIER PAOLO PORTINARO

A proposito dell'incontro di Domenica con Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale e docente di giustizia costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino, voglio portare alla vostra attenzione l'esegesi che, giusto ieri, Zagrebelsky ha condotto del momento politico-istituzionale che stiamo traversando, analisi che ritengo molto delucidante.


Gustavo Zagrebelsky e la sua invidiabile lampada da tavolo.
LA DEMOCRAZIA DELEGITTIMATA
di Gustavo Zagrebelsky
Repubblica 15 Ottobre 2009


Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro punti concatenati tra loro, dall' astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l' aggressività e l' istinto di sopraffazione che allignano – in uno più, in altro meno – in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po' di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un giorno, le "prove di forza" che accompagnano, come fantasmi che possono materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul "disagio della civiltà" (1929). È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni s' indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall´ego di coloro che le impersonano e le usano per i loro propri interessi. Oppure – ed è lo stesso – è un ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l´idea che esse siano impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente coperture della lotta politica. In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le istituzioni e il "senso delle istituzioni" non riescono a controllare. Questo è esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che, con un´espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo "delegittimazione". Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La "prova di forza" pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per "istituzionalizzare" il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno le cose per schierarsi dalla "parte giusta". Accanto ai molti indifferenti, presi dell'assillo d'altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c´è chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge, cambiandole a suo uso e consumo. Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di attentato allo stato di diritto, dall´altra. Questa spaccatura è pre-politica. Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti, nei due sensi, l'accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di "golpe", senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando questo veleno entra in circolo, tutto – atti e parole che, nella normalità, sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze – diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione. Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare spazio all´avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste come "dato", come "cosa" che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza ch'esse devono assicurare.
3. "Delegittimazione democratica" delle istituzioni". La minaccia alla convivenza va di pari passo con l'indebolimento delle istituzioni, con la loro "delegittimazione". È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta, con l'affermarsi nella pratica e nel senso comune di un'idea di politica come immedesimazione di un capo nel suo popolo ("voglio essere uno come voi") e di un popolo nel suo capo ("vogliamo essere come te"). Quest'immedesimazione ha assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria, demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di quell´immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall'alto in basso, non concependo che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica come immedesimazione o "identitaria" non ha bisogno d´istituzioni; le sono d'impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci. Nascono movimenti, simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli, esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il "paese reale" per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi "vera democrazia", in contrapposizione a quella "falsa", "formale", "vuota", cioè quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della "vera democrazia" (posso fare quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero o falso che sia), le istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s'immagina neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la Costituzione oppure, per le istituzioni dell'informazione, semplicemente di pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il potere è "di destra", le si accuserà d'essere "di sinistra". Se mai il potere fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare d'essere "di destra". Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle, a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle intimidazioni o – ed è lo stesso – alle seduzioni e, se non basta, via alle riforme per ridurre l'autonomia e l´indipendenza delle istituzioni non allineate. Così, si cambia regime dall'interno, lasciando l'involucro ma svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al "primus inter pares", per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del presidente della Repubblica, per l'intanto da rendere inquilino remissivo, perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della (subordinazione) politica.



Il quarto punto l'ho intenzionalmente resecato, così spezzando la concatenazione, perchè lo trovo meno convincente dei tre punti di analisi precedenti, però se volete vagliarne autonomamente la validità, cliccate su "La democrazia delegittimata" e sarete condotti direttamente all'articolo integro nella "Rassegna stampa della Camera".

domenica 11 ottobre 2009

SGUARDI D'ORIENTE: "Il gusto dell'anguria" di Tsai Ming-Liang (2005)

Un anguria può esprimere quello che le parole non dicono, in questo caldo torrido un anguria è il più grande gesto d'amore. Regalare angurie è il modo più sincero ed economico per dire quello che abbiamo in fondo al cuore, per comunicare alla persona amata quello che altrimenti non oseremo mai. Il codice dell'anguria è diretto, immediato e preciso. Una piccola anguria gialla significa: -tra noi due c'è solo amicizia-. Una grande anguria rossa in dono testimonia il più rovente di tutti gli amori. Una piccola anguria rossa indica un amore timido che sta per esplodere.”

A Taipei Shiang-Chyi è una ragazza che ascolta queste parole alla TV, Hsiao-Kang masturba sadicamente una donna attraverso una grande anguria rossa, la città è in preda ad una grave siccità ed il governo consiglia il consumo di cocomeri. “Il gusto dell'anguria” (ma il titolo originale suona come “La nuvola capricciosa” che deriva da una canzone ed allude alla solitudine degli incontri umani) è il seguito ideale di “Che ora è laggiù?”: Shiang-Chyi torna da Parigi ed incontra Hsiao, l'amore che avevano conosciuto non è mai sparito. Quest'ultimo non vende più orologi (come nel precedente film), è diventato attore porno e lavora in un appartamento nello stesso palazzo dove vive Shiang-Chyi. Il regista Tsai Ming-Liang mostra la solitudine di due personaggi (e del loro amore) in un paesaggio urbano squallido: le composizioni geometriche delle riprese sulle grandi infrastrutture di Taipei mettono in balia della loro alienazione i protagonisti, vuoto esistenziale della città e dei suoi abitanti. Il procedere drammatico cupo e vuoto è intercalato da 5 intermezzi musicali cantati di gusto estremamente kitsch, molto colorati e fantasiosi, è affidato il compito di smorzare i toni e spiegare lo stato d'animo dei personaggi. Questi siparietti sono composti da riprese più mobili e rocambolesche (rispetto al resto): il cinema del silenzio, delle lunghe riprese ferme è una scelta estetica per il regista. (ho inserito in fondo un esempio di intermezzo musicale).

Il film si apre con una lunga inquadratura su di un sotterraneo e una estrema e feticista scena di sesso dove l'anguria è metafora fisica della vagina: il godimento di rimando della donna è il falso sesso della pornografia. Tutto questo in montaggio alternato mentre Shiang-Chyi beve succo d'anguria nel suo appartamento ed economizza come può l'acqua delle bottiglie. Nel loro girovagare i due si rincontrano su di un altalena in un parco. Il regista compone la scena con quattro lunghe statiche inquadrature della durata totale di 6 minuti. Nella prima la protagonista ruba una bottiglia d'acqua, per pulire un anguria, a l'ignaro ex-amante che sta dormendo;

Nella seconda lo riconosce, si siede davanti a lui e rimane a guardarlo fino a che a sua volta si addormenta nella terza.



Nell'ultima inquadratura Hsiao-Kang si sveglia e guarda la ragazza che riconosce, lei si sveglia e gli pone l'unica domanda/dialogo tra i due del film: “ vendi ancora orologi?” confermando l'identità dei protagonisti di “Che ora è laggiù?”.



Il regista nella composizione di questa scena ci invita a guardare. L'immagine è quotidiana, non è costruita per stimolare emozioni facili (vedi: il cinema americano contemporaneo degli effetti speciali). Per fare questo ricorre alla pura semplicità delle immagini ferme ai limiti della noia: non utilizza nessuno espediente tecnico e drammatico per farci rimanere davanti allo schermo. Solo il “Guardare” le immagini ci deve stimolare e porta con sé le informazioni necessarie del film. Lei guarda Lui mentre dorme, Lui guarda Lei mentre dorme e Noi guardiamo loro attraverso la mdp (macchina da presa): è un invito ad indagare il guardare e i suoi punti di vista. La mdp diventa una presenza forte, non mimetizza il suo linguaggio ma ce lo svela con forza come se fosse un personaggio presente nella scena.

Ecco che dopo circa 40 minuti Tsai Ming-Liang riprende i suoi personaggi a lavoro: lei in un museo dove ruba l'acqua dai bagni pubblici e lui nelle vesti di attore porno. Questa è la parte più metacinematografica del film: la mdp riprende un “set pornografico” composto da attore e attrice, operatore, addetto luci e regista.


Il film svela i mezzi del proprio mestiere in modo agghiacciante: lo fa con un porno che celebra drammaticamente il falso sesso come nella prima scena dell'anguria. Non manca l'umorismo: a causa della siccità il regista è costretto a simulare la doccia tramite una bottiglia bucata, e le bottiglie finiranno prima del previsto. Quale è la differenza tra la mdp del film stesso e quella del set pornografico? La “nostra” ci mostra un immagine che dobbiamo indagare (solo 3 inquadrature, 2 lunghe e ultima con eiaculazione facciale forse solo per provocazione) mentre la mdp del porno monta le immagini per dare ad un determinato pubblico una determinata attrazione (cinema degli effetti speciali come cinema pornografico?). Qui (come in una scena allo stesso modo successiva) si concentra la maggior parte dei dialoghi del film: insignificanti. La solitudine dei protagonisti è comunicazione impossibile e solitudine sessuale, anche chi ha dei sentimenti sembra non riuscire a mostrarli a causa di una repressione che sembra costretta. Non a caso Hsiao-Kang si masturba di nascosto mentre guarda la collega recitare, si eccita di fronte al falso e lo fa con vergogna in un impulso di liberazione come di chi è costretto in catene a reprimere la propria sessualità, e anche qui il regista ci mostra in un macro l'eiaculazione dell'attore. E' in un video-noleggio porno che i due protagonisti si scambiano le uniche effusioni del film: un bacio che sfocia in enfasi sessuale improvvisa subito interrotta da Hsiao-Kang come a voler dire “meglio di no, ti voglio bene” che porta con sé un sesso malato.

Il falso come tema portante del film ritorna anche nella composizione drammatica. Tsai Ming-Liang racconta il film attraverso le ombre dei personaggi, proiezioni della realtà. E' un mondo falso che ha bisogno di inventarsi: la ragazza che simula un parto con una anguria. Shiang-Chyi trova la collega di Hsiao-Kang svenuta nell'ascensore, la soccorre, trova dei dvd pornografici in suo possesso. Scopre che il suo ex-venditore di orologi è un attore porno. La ragazza guarda i filmati e noi diventiamo spettatori di una spettatrice non interessata alle emozioni pornografiche del video: ella è sorpresa dalle implicazioni del suo vedere, è costretta dalle immagini a guardare una realtà dura e scomoda.


Da qui si arriva alla scena finale che fece scandalo al festival di Berlino 2005. La ragazza svenuta è riportata nel set pornografico. Show must go on, bisogna girare anche se ha perso i sensi. E' come l'anguria, solo un oggetto portatore di rimando di piacere agli spettatori del porno che di conseguenza guardano l'immagine come dei feticisti dello schermo.

Shiang-Chyi assiste spettatrice da una finestra, i due si fissano in un pessimismo disperato, nel quadro del falso sesso anche lei comincia a gemere, interrotta alla fine dalla cruda fellazione/eiaculazione del protagonista con il viso di lei immerso nel suo sesso.


lunedì 5 ottobre 2009

Esperimenti da fotoreporter - Atto III

ROMA - 3 Ottobre 2009 Manifestazione per la Libertà di Informazione

Articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana (Comma I e II):
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.




I- Il popolo in Piazza del Popolo








II- Persone


Ovviamente Nanni è venuto in Vespa.



Ezio Mauro - Direttore di Repubblica



Eugenio Scalfari - Fondatore di Repubblica


III- Panoramiche pinciane







Ne hanno parlato ampiamente anche il Times ("Thousands to march on Rome in protest at Berlusconi’s press clampdown") e il New York Times ("Thousands Defend Role of Press in Italy").

sabato 3 ottobre 2009

Leonardo (ancora) e le pozzanghere. [Segue da Le Nuvole]

Segue da: "Le Nuvole"

Destare l'ingegno
Leonardo Da Vinci aveva l’abitudine di annotare i suoi pensieri, in qualsiasi luogo si trovasse, su dei singoli fogli, usando poche parole scritte in un codice non sempre comprensibile. Ogni argomento veniva sviluppato e ripetuto diverse volte.
Dopo la morte di Leonardo, il suo erede Francesco Melzi riunì questi scritti in una raccolta, dal titolo di Trattato della pittura, di cui diverse copie circolarono (scusate la ridondanza) nei circoli accademici italiani. Le migliaia di fogli condensati nel Trattato possono considerarsi l’opera più significativa di Leonardo, nonché il suo testo più importante sull’arte.
Ora, cosa c’entra questo con le nuvole?
Nel capitolo XX del Trattato Leonardo suggerisce al pittore una bizzarra pratica ispirativa, la quale sembra alquanto ricordare il processo di immaginificazione delle nuvole descritto nel post precedente. La pratica consiste in:

1) Fissare con lo sguardo una pozzanghera, un muro imbrattato, una macchia qualsiasi
2) Aspettare
3) Ammirare le straordinarie sembianze di volti, paesaggi e quant’altre strabilianti forme ancora vi affiorino.

Così il Da Vinci:

“E questo è: se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de' diversi paesi, ornati di montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi ; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma. E interviene in simili muri e misti come del sono di campane, che ne' loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabulo che tu imaginerai” (p.151)

C’è qualcosa dunque che accomuna i muri imbrattati, le pozzanghere, le nuvole (e le campane) e ne fa un pozzo da cui emergono, attraverso lunga e concentrata osservazione, immagini fantastiche?
Si direbbe che il trait d'union di tutte queste superfici sia il disordine, il caso, la non-struttura. In tutti i casi gli stimoli che ci vengono proposti sembrano costitutivamente ambigui, confusi. “Ci sono altri passi, anche più interessanti, in cui Leonardo esamina la capacità che le cose confuse hanno di destare l’ingegno a nuove invenzioni”.

La macchia, il contorno, il non definito.
Nel 1788 Il medico e poeta romantico tedesco Justinus Kerner utilizzava delle macchie d’inchiostro su fogli di carta piegata per stimolare la fantasia sua e dei suoi amici. Kerner coniò per le sue chiazze il termine Kleksographien (dal tedesco: Kleks = macchia) e scrisse molte poesie sulle misteriose apparizioni che queste macchie gli suggerivano. Essendo uno spiritista (nonché primo medico a documentare l' apparizione di alcuni Geister e fenomeni di medium) non stupisce che si trattasse perlopiù di fantasmi. Il modo in cui queste immagini si formino nelle macchie ci è descritto in versi dallo stesso Kerner:

Diese Bilder aus dem Hades,
Alle schwarz und schauerlich,
(Geister sind's, sehr niedern Grades,)
Haben selbst gebildet sich
Ohn mein Zuthun, mir zum Schrecken,
Einzig nur – aus Tintenflecken.
1[1]

Queste immagini dall’Ade
nere tutte e orribili
(Spirti son, di vile grado)
Da sé la forma si son date
Senza il mio aiuto sorte, per il mio terrore,
così, unicamente, da macchie d’inchiostro.

[Justinus Kerner, Kleksographien. Mit Illustrationen nach den Vorlagen des Verfassers, Stuttgart, Leipzig, Berlin, Wien 1890 (geschrieben 1857),p. 12. ]

E' interessante notare come dal caso e dall'ambiguo se ne escano ancora una volta, involontariamente, delle forme. In tale utilizzo della macchie Kerner (e la sua combriccola) potrebbe essere considerato il predecessore di un illustre psicologo svizzero, tale Hermann Rorschach, che ispirato forse da qualche macchia kleksografica, con cui pare di dilettasse in giovinezza, inventò il noto ed omonimo test psicologico, le macchie di Rorschach. (Tra l’altro si noti la somiglianza tra la Kleksographie di Kerkner qui sotto a sinistra e la tavola 5 del Rorschach a destra).





Il vantaggio del Rorschach sulle nubi è che si può replicare, e confrontare le interpretazioni date da soggetti diversi.

Tanto il test di Rorschach quanto le Kleksographien si fondano su una procedura abbastanza familiare:

1) Fissare con o sguardo una macchia (tavola di Rorschach)
2) Aspettare
3) Descrivere le forme che vi si delineano.

Il Rorschach è un test psicodiagnostico proiettivo.

Pro – getto, dunque.
Proiezione deriva dal latino pro-iacio, letteralmente gettare davanti. Quando staccate un contenuto da voi stessi per poi porvelo davanti agli occhi ed osservarlo, come se fosse qualcosa di esterno, ecco che state proiettando qualcosa che vi appartiene. Assumiamo il termine nel suo significato lato, non specificatamente geometrico (le proiezioni ortogonali) né psicanalitico (per cui il vostro capufficio diventa vostro padre), anche se ci sono tratti comuni ad entrambi questi due sensi.
Ora, la proiezione, ci insegnano gli psicologi, è una facoltà inconscia, particolarmente stimolata in contesti destrutturati, ambigui, non definiti, proprio e non a caso come quelli sopra menzionati. Essa interverrebbe laddove l’informazione è manchevole o poco chiara, provvedendo al suo completamento, alla sua “interpretazione”, attraverso il collegamento col noto, stabilendo un legame con contenuti propri al soggetto che la esercita.
In questo modo si abbozza, in maniera enormemente grossolana e approssimativa, la facoltà che è chiamata in causa da alcuni (Ernst Gombrich, per noi, in particolare) per spiegare il processo di metamorfosi delle nuvole, delle pozzanghere e delle macchie, nonché tutti i processi di illusione, artistica e non, e infine, più in generale, quelli della visione stessa.

I Carracci ed il TAT
Uno tra i primi a rappresentare l'effetto per cui le nuvole assumono sembianze umane fu il Mantegna, che nel quadro "La virtù scaccia il vizio" (il primo in alto) dipinge un volto che assiste alla scena proprio nel cirro in alto a sinistra (particolare qui a fianco).
Sono tuttavia i fratelli Carracci a farci sperimentare giocosamente il modo in cui agisce la nostra, di proiezioni. I due fratelli infatti, oltre ad essere annoverati tra i padri del genere della caricatura (che si basa forse ancora una volta su un gioco proiettivo - quello di un volto noto su uno caricato), sono anche gli inventori dei cosiddetti “indovinelli scherzosi”, che invitano lo spettatore a colmare\completare con l’immaginazione il senso dei tratti da essi abbozzati sulla tela, traendone così il corrispondente significato. Esempio:
cosa vedete nelle disegno qua sotto a sinistra (rettangolo sormontato da triangolo)?

La maggioranza delle persone cui è sottoposta la domanda risponde “Squalo in una vasca”. Questo dà da riflettere su quanto Damien Hirsch (col suo “squalo in formalina”, opera d’arte contemporanea venduta più cara al mondo) e il film Lo Squalo abbiano plasmato la nostra immaginazione. In realtà si tratta, almeno secondo i Carracci, di un frate cappuccino addormentato dietro il pulpito (il fatto che i Carracci avessero più familiarità coi frati che con gli squali è importante per il nostro punto di vista). La retta sormontata da un cerchio e da un triangolo è un muratore con la sua cazzuola, visti di profilo al di là del muro.
In realtà sul foglio ci sono solo quattro linee (e forse anche questa è una proiezione\interpretazione), ma, come si vede, l’operazione proiettiva cui ci invitano i carracci, ben consapevoli del meccanismo della visione, una volta riuscita dona a questi segni un senso preciso.
Ora l'esempio dei Carracci è quasi paradigmatico per capire ed elucidare come la proiezione intervenga del processo della visione. Essa si configura come un’operazione essenziale per la lettura di un immagine in quanto interpreta i segni, li coordina, istituisce dei rimandi tra l'uno e l'altro dando vita ad un insieme dotato di senso.
La proiezione vi aggiunge qualcosa (le relazioni tra i segni?), ed è un aggiunta decisiva per un’attribuzione di senso ed una comprensione di tratti che forse, altrimenti, resterebbero una frammentarietà irrelata, destrutturata e insensata. Essa getta così un ponte tra il visibile e l’invisibile, tra tre linee e uno squalo, cercando un’interpretazione delle prime attraverso il secondo. La proiezione seleziona e organizza i dettagli\segni percettivi e, mediante il collegamento con il noto, ci restituisce il senso “Di quegl’ enimmi, o divinarelli pittorici, che furono fra essi così frequenti, e che in poche linee, o segni gran cose racchiudevano e rivelavano”.

lunedì 28 settembre 2009

La religione è la cocaina dei popoli

Il testo che segue è un trancio di un articolo di Umberto Eco pubblicato su Repubblica il 25 Settembre 2009 (rielaborazione di un precedente articolo del dicembre 2007 pubblicato nella sua rubrica sull'Espresso "La bustina di Minerva") che parla di Saramago e del suo nuovo libro in uscita "Il Quaderno" di cui Eco ha composto la prefazione. Del libro in questione, raccolta degli interventi del blog di Saramago "O Caderno de Saramago", aveva già parlato oh cielo! tempo fa; nel frattempo però il blog ha chiuso.

[...] Si è detto dell'ateismo militante di Saramago. In effetti la sua polemica non è contro Dio: una volta ammesso che «la sua eternità è solo quella di un eterno non essere», Saramago potrebbe starsene tranquillo. Il suo astio è verso le religioni (ed è per questo che lo attaccano da varie parti, negare Dio è concesso a tutti, polemizzare con le religioni mette in questione le strutture sociali). Una volta, proprio stimolato da uno degli interventi antireligiosi di Saramago, avevo riflettuto sulla celebre definizione marxiana per cui la religione è l' oppio dei popoli. Ma è vero che le religioni hanno tutte e sempre questa virtus dormitiva? Saramago a più riprese si è scagliato contro le religioni come fomite [motivo] di conflitto: «Le religioni, tutte, senza eccezione, non serviranno mai per avvicinare e riconciliare gli uomini e, al contrario, sono state e continuano a essere causa di sofferenze inenarrabili, di stragi, di mostruose violenze fisiche e spirituali che costituiscono uno dei più tenebrosi capitoli della misera storia umana» ( la Repubblica, 20 settembre 2001). Saramago concludeva altrove che «se tutti fossimo atei vivremmo in una società più pacifica». Non sono sicuro che avesse ragione,e sembra che indirettamente gli avesse risposto papa Ratzinger nella sua enciclica Spe salvi dove diceva che è l' ateismo del XIX e del XX secolo, anche se si è presentato come protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale, che ha fatto sì che «da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia». Forse Ratzinger pensava a quei senzadio di Lenin e Stalin, ma dimenticava che sulle bandiere naziste stava scritto Gott mit uns (che significa «Dio è con noi»), che falangi di cappellani militari benedicevano i gagliardetti fascisti, che ispirato a principi religiosissimi e sostenuto da Guerriglieri di Cristo Re era il massacratore Francisco Franco (a parte i crimini degli avversari, è pur sempre lui che ha cominciato), che religiosissimi erano i vandeani contro i repubblicani che avevano pure inventato una Dea Ragione, che cattolici e protestanti si sono allegramente massacrati per anni e anni, che sia i crociati che i loro nemici erano spinti da motivazioni religiose, che per difendere la religione romana si facevano mangiare i cristiani dai leoni, che per ragioni religiose sono stati accesi molti roghi, che religiosissimi sono i fondamentalisti musulmani, gli attentatori delle Twin Towers, Osama e i talebani che bombardavano i Buddha, che per ragioni religiose si oppongono India e Pakistan, e che infine è invocando God bless America che Bush ha invaso l' Iraq.
Per cui mi veniva da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata l' oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Credo che anche questa sia l' opinione di Saramago e gli regalo la definizione - e la sua responsabilità. [...]

Inoltre in questo stesso articolo per sottolineare che "Saramago non fa complimenti, ovvero non le manda a dire", Eco si lancia in un gustoso virtuosismo, una tripla citazione carpiata con paradosso finale:
"Cito (a memoria) Borges che citava (forse a memoria) il dottor Johnson che citava il fatto di quel tale che così insultava il proprio avversario: «Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando»."


P.s. Ho immesso nelle Traslazioni la rubrica di Eco sull'Espresso denominata "La bustina di Minerva".

sabato 19 settembre 2009

KOSI' E' MEGLIO



Da qualche giorno l'opera d'arte "Arcobaleno di Pace - Il tempo dell'uomo", posta al centro della rotonda davanti a Pratilia, è stata dotata/deturpata di mutande-boxer a vestire il povero uomo vitruviano. "Kosì è meglio" con tanto di "K" adolescenziale porta con sé una domanda: ma forse non è veramente meglio Kosì?
Nonostante l'atto vandalico (da condannare) l'opera deturpata ha suscitato in me maggiore interesse di prima risvegliando secolari diatribe antico VS moderno.
"Il faut etre de son temps" "Appartenere al proprio tempo" era uno dei motti principali dei realisti di metà '800, nonostante l'esigenza di contemporaneità fu propugnata già prima.
Quanto l'uomo vitruviano rispecchia ancora il nostro tempo tanto da metterlo al centro di uno ormai (ahimè) dei simboli urbani della nostra città: la rotonda?!
L'arte contemporanea è (o è stata) un lungo processo di perdita dell'unitarietà e dell'antica armonia. Artisti delle avanguardie rifiutarono categoricamente l'arte del passato, citando e dissacrando quelle opere d'arte che erano delle certezze ma non potevano più essere autentiche nella loro epoca, la bellezza è un retaggio del passato. Come d'altronde fecero nel cinema i registi della Nouvelle Vague negli anni '60, prendendo a modello ma rifiutando il cinema classico americano.



Marcel Duchamp - Mona Lisa Parody (1912?)


Arnulf Rainer - Bundle in face (1974)





da una scena di "Fino all'ultimo respiro" di J.L. Godard (1960). Jean Paul Belmondo imita Humprey Bogart.

lunedì 14 settembre 2009

Le Nuvole

Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio
Certe volte sono bianche

e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia


Nel 1990 esce il dodicesimo album di studio di Fabrizio De André, intitolato Le Nuvole, della cui prima e omonima traccia avete riportato il testo. L’ascolto, prima di proseguire la lettura, è obbligatorio [abbisogno della password per le colonne foniche, ho perso tutto]

[…]

Il titolo dell’abum è squisitamente politico, ed è un richiamo diretto alla nota e ancora omonima commedia di Aristofane. Nell’opera del commediografo greco “le Nuvole” rappresentano i sofisti, cattivi consiglieri e contestatori (tra i quali viene annoverato, suo malgrado, il povero Socrate, in qualità di esponente principale della categoria) i quali, secondo De André

indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell'Atene di quei tempi. […]”

D’altro canto

Le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell'album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.”

Ecco spiegata la bipartizione del disco in due parti, una in italiano (che rappresenta i potenti - primi quattro brani) e l’altra in dialetto (i.e. il popolo, secondi quattro). Utilizzando tale chiave di lettura si interpreta poi anche il frinire iniziale delle cicale, che apre il brano (sarà ripreso anche al termine), e che rappresenta “le chiacchiere dei ricchi, dei potenti, delle nuvole” nel loro significato metaforico.

se da una parte ci obbligano ad alzare lo sguardo per osservarle, dall'altra ci impediscono di vedere qualcosa di diverso o più alto di loro. Allora le nuvole diventano entità che decidono al di sopra di noi e cui noi dobbiamo sottostare, ma, pur condizionando la vita di tutti, sono fatte di niente, sono solo apparenza che ci passa sopra con indifferenza e noncuranza per nostra voglia di pioggia...

(Da Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 146)


“Per la messa, pare un cammello davvero”
Ecco, chiarito il significato metaforico della matassa di acqua in sospensione dato da De André, vorrei liberarmene subito. Lo scopo è quello di depoliticizzare le nuvole, per poterne prenderne in considerazione un altro aspetto, meno opprimente e oscurantista. Si tratta di quell’ aspetto metamorfico, plastico e sorprendente che fa delle nuvole un affascinante esercizio di immaginazione per bambini. Da questo, secondo me, deriva il suo fascino anche la canzone di De André. Considereremo dunque il lato fantastico (nel senso di stimolante la fantasia) delle nuvole, l’airone e la pecora, che gli infanti vedono meglio, ma che anche il vecchio Aristofane, dal canto suo, aveva già colto:

SOCRATE:
- “Non vedesti mai, guardando il cielo nuvole simili a una centauro, o ad una pantera, o ad un toro”?
LESINA:

- "Senza dubbio! E con questo?"
SOCRATE:

- "Mutano di forma a lor piacere.Se vedono un di questi dalle gran capelliere,ricoperti di peli tutti quanti, un selvatico sul fare di Gerònimo, per beffar quel fanatico,si cangiano in centauri. "

(Aristoph. Nub. 346ss.)


Cangianti le nuvole, caleidoscopiche e multiformi. Shakespeare sembra registrarne l'analogo effetto in una delle sue opere più conosciute, The Tragical History of Hamlet, Prince of Denmark, nelle parole del ciambellano Polonio:


AMLETO:

- La vedete quella nuvola, che ha quasi la forma di un cammello?
POLONIO:

- Per la messa, pare un cammello davvero!
AMLETO:

- A me sembra una donnola.
POLONIO:

- Ha la schiena di una donnola.
AMLETO:

- O di una balena?
POLONIO:

- E' identica a una balena. "

(378-84)

HAMLET
Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?
POLONIUS
Bt th’mass and’tis, like a camel indeed.
HAMLET
Methinks it is like a weasel.
POLONIUS
Il is backed like a weasel.
HAMLET
Or, like a whale?
POLONIUS
Very like a whale


Data la sua posizione di galoppino\lacchè, Polonio può anche assere tacciato di menzogna nel compiacere il suo padrone stupendosi di fronte alla distesa di forme che sostiene avere davanti agli occhi. Il suo creatore, però, sembra nutrire per esse un fascino autentico, a giudicare almeno dalla bellissima descrizione con cui dipinge nuovamente la magia di nembi e cirri, evocandone la metamorfosi, in un bel passo dell’Antonio e Cleopatra:

ANTONIO
- A volte noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che ammiccano al mondo irridendo ai nostri occhi con un gioco d’aria. Tu hai visto segni come questi; sono il corteggio del buio vespertino.
EROS
- Sì, mio signore
ANTONIO
- Quello che ora è un cavallo, basta un pensiero e il nembo lo cancella, e lo rende indistinto come l’acqua nell’acqua.

Basta un pensiero. (Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?)

Apollonio di Tiana fu un filosofo pitagorico, vissuto all’epoca di Cristo, che girò il mondo predicando la sapienza e compiendo miracoli (anche lui). Filostrato ne scrisse la biografia, un “curioso e commovente documento del paganesimo al tramonto”. Lì racconta di come questi arrivò fino in India, dove ammirò alcuni rilievi in metallo eseguiti al tempo di Alessandro Magno e così si intrattenne col suo discepolo Damide (traendo conclusoni sulle nuvole simili a quelle accennate da Antonio):

-«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?»
-«Certo», ribatte Damide.
- «E in che cosa consiste quest’arte?»
- «Beh, - risponde Damide – nel mescolare i colori».
- «E perché lo fanno?”.
- «Per l’imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole».
- «Allora – insiste Apollonio - la pittura è imitazione, mimesi?».
- «Certo, che cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori ».
- «Già, - continua il suo mentore - ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?»
No, rispondono concordi i due, queste forme che vediamo nelle nubi non hanno significato in sé, sorgono per puro caso; siamo noi che siamo per natura portati all’imitazione e diamo forma a queste nubi.
- “Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l‘arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro è quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente? Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa e che nessuno può capire il cavallo o il toro dipinto se non conosce questi animali”

(cit da Gombrich 221,2)


A quanto pare sembra che le forme nelle nuvole ce le mettiamo noi, almeno in parte. Così la malìa sarebbe un auto-ammaliamento, e noi saremmo vittime della nostra stessa fantasia.
Ma secondo quale meccanismo?