sabato 31 luglio 2010

Università la lunga storia della catastrofe

Guido Crainz
Università la lunga storia della catastrofe
"La Repubblica", 28 luglio 2010

È molto difficile riflettere sulla parziale riforma universitaria oggi in discussione senza fare i conti con la storia lunga che le sta alle spalle e che chiama in causa, insieme, responsabilità del ceto politico e del mondo accademico. Una storia in cui, come in Assassinio sull'Orient Express di Agatha Christie, non vi è un unico colpevole: alla fine tutti i possibili imputati appaiono in varie forme responsabili. Viene talora evocato il fantasma del '68, ma la Francia gollista, ad esempio, rispose subito al "maggio" con la legge Faure, che avviò una modernizzazione reale degli atenei. Nulla di tutto ciò avvenne da noi, e la riforma in discussione alla vigilia del '68 - la inadeguata legge Gui - era stata affossata non tanto dalla protesta studentesca quanto dall'ostruzionismo conservatore dei "deputati-baroni", fieri oppositori della incompatibilità fra docenza e mandato parlamentare, e dell'introduzione del tempo pieno. Ancora al '68 viene talora attribuita la liberalizzazione dell'accesso a tutte le Facoltà, sin lì condizionato - in modo talora anacronistico - dalla scuola frequentata in precedenza. Anche questo non è proprio esatto: nel progetto governativo originario la liberalizzazione era prevista come conseguenza della riforma delle scuole superiori. Nella difficoltà di realizzarla la maggioranza introdusse poi senza alcun "filtro" e premessa una liberalizzazione che - così praticata - avrebbe introdotto più di un guasto. Inizia allora quel depauperamento dei livelli di studio che è stato sottolineato su queste pagine da Carlo Galli. Inizia, anche, un aumento abnorme degli studenti che non riescono a laurearsi o si laureano in tempi molto lunghi, uno dei dati più negativi del nostro ordinamento. In tutto questo il '68 non pare il principale responsabile, e proprio nel periodo immediatamente successivo ad esso il timore di nuove fiammate favorì un progetto governativo realmente innovativo, presentato con competenza e intelligenza dal socialista - di derivazione "azionista"- Tristano Codignola (alla sua scomparsa un commosso ricordo di Beniamino Placido ne evocò la "tristezza del riformista", alimentata dai pesanti ostacoli incontrati nel suo lungo lavoro). In quel progetto, frutto anche di un ampio confronto pedagogico e politico, diventavano centrali i Dipartimenti e i corsi di laurea, scomparivano le Facoltà tradizionali, si delineava la figura del "docente unico", gli studenti avevano consistenti rappresentanze e spazi di autonomia, e così via. Approvata al Senato ma insabbiata nel 1971-72 alla Camera dalla resistenza di ampi settori della Dc (e naturalmente dei potentati accademici) quella legge venne poi definitivamente affossata, e iniziò allora un lungo sonno. In assenza di regole definite si moltiplicarono figure intermedie e precarie sia di docenti che di "borsisti" o "assegnisti", cui avrebbe dovuto porre argine la "legge 382" del 1980. In essa la proclamata "unitarietà della figura docente" era subito contraddetta dalla distinzione fra ordinari e associati: e per chi aveva già qualche forma di docenza era previsto un giudizio di idoneità ad associato che rigonfiò immediatamente gli organici. Gli aspetti più innovativi avrebbero dovuto riguardare il reclutamento dei giovani ed avere come cardini i dottorati di ricerca e l'istituzione del ruolo di ricercatore, destinato a sostituire la precedente pletora di figure sottoposte all' arbitrio del "barone". Figure che entrarono però tutte o quasi nel nuovo ruolo - anche qui con un giudizio di idoneità molto simile ad un' ope legis -, e anche questo frenò per molti anni il ricambio. L'autonomia del ricercatore era comunque affermata, ma questo è uno degli aspetti che la riforma Gelmini mette in discussione, come ha sottolineato bene Benedetta Tobagi (mentre i dottorati sono da tempo in crisi, e non solo per le ristrettezze finanziarie): i nuovi ricercatori saranno assunti a tempo determinato e potranno rimanere nell'Università solo vincendo un concorso da associato entro 6 anni (termine poco credibile, nel panorama attuale: è il preannuncio di future ope legis?). L' "innovazione" rischia così di reintrodurre o favorire nuove forme di subalternità e vecchi difetti senza alcuna motivazione reale. Oggi si diventa ricercatori dopo un percorso difficile e segnato da una dura concorrenza, anche se condizionato sin qui dalle dinamiche dei concorsi locali: non vi è comunque un grandissimo rischio che un giovane giunto in questo modo all'Università si trasformi nel "fannullone" paventato da Brunetta o dal rettore Frati. Permangono semmai gli ultimi residui di una situazione precedente, ed anche per scongiurare il suo ripresentarsi è necessaria invece una idoneità nazionale, così come lo è per le altre fasce (con modalità volte a ridurre, perlomeno, l' influenza delle "cordate" o lobby). Ed è necessario favorire la progressione dei ricercatori - su cui grava oggi molta parte della didattica con la via maestra di concorsi nazionali regolari e seri. Inutile nascondere, inoltre, che nella situazione concreta il pensionamento dei docenti a 65 anni è la premessa quasi obbligatoria - anche se certo discutibile e non sufficiente - di un ricambio reale. Fermo restando, naturalmente, che non vi può essere nessuna riforma dell' istruzione senza investimenti significativi. Vi è però qualcosa che manca, nella discussione di oggi: manca una idea, una prospettiva di fondo che riguardi, insieme, l'Università e la società. Eppure un'idea generale era riconoscibile anche nel "progetto Berlinguer" che portò all' ordinamento attuale, il "3+2". Vi era l' esigenza di una formazione che ponesse attenzione ai livelli conoscitivi di partenza e al tempo stesso prevedesse incentivi alla specializzazione e all'approfondimento. E vi era il bisogno di superare un' organizzazione didattica ormai sclerotizzata. I guasti principali indotti da quella legge non erano in realtà inscritti in essa ma sono stati il frutto del malgoverno, dell' inadeguatezza e dell' insensibilità ai nodi della didattica di larga parte del corpo docente: di qui la frantumazione e la moltiplicazione delle materie e dei corsi, lo svuotamento della tesi di laurea, l'assenza di una riflessione su nuove modalità di insegnamento e sul profilo del nuovo biennio specialistico, e così via. Per questo, anche, sono mancati quei sostegni e quegli orientamenti didattici - all' ingresso sia della laurea triennale che di quella specialistica - che pure erano considerati essenziali nell' ispirazione della legge. Ancora alla concreta realtà accademica rimandano infine i fallimenti dei tentativi sin qui fatti di riformare i concorsi (i concorsi locali erano nati come rimedio, che si è rivelato pessimo, ai riconosciuti difetti dei concorsi nazionali). E ad essa rimanda, anche, la sostanziale indifferenza con cui vengono normalmente accolte denunce pur documentatissime e pesanti. In altri termini, l' urgenza di un ricambio radicale nasce in primo luogo dal fatto che una parte consistente dell' attuale corpo accademico ha dimostrato di non essere facilmente "riformabile".

venerdì 30 luglio 2010

2. Il vero successo della «strategia della tensione» (all'interno del capitolo: XI. Gli anni della «strategia della tensione»).

[...] Con piazza Fontana inizia quella che è stata chiamata la «strategia della tensione»: un inasprimento «forzato» dello scontro sociale volto a spostare a destra l'opinione pubblica prima ancora che l'asse politico; e volto a costruire le basi per «governi d'ordine», se non presidenzialismi autoritari o aperte rotture degli assetti costituzionali. Gli attori di quella strategia di più lungo periodo - fatta di attentati terroristici, di aggressioni squadristiche o di un uso illegittimo degli apparati dello Stato - sono già tutti all'opera nella strage di Milano e nella gestione dell'inchiesta giudiziaria e dei processi. Vi è inoltre un elemento che rende «unica» la strage del 12 dicembre: essa è la sola ad essere attribuita per lungo tempo alla sinistra, o a gruppi che ne fanno parte. Inoltre, proprio grazie alla «battaglia di verità» su piazza Fontana, questa sarà anche l'ultima volta in cui la «versione ufficiale» - di questure, magistrature inquirenti e governi - sarà automaticamente accettata dal paese, o dalla gran parte di esso. Questa «unicità» spiega perché si siano introdotte allora modificazioni profonde negli orizzonti culturali, prima ancora che nello scontro sociale e politico. [...]
E' in questo clima che lo squadrismo neofascista lancia l'offensiva più seria mai tentata nell'Italia repubblicana, con protagonisti diversi e con connessioni differenti: dai militanti del Movimento sociale italiano alla nebulosa dei gruppi semiclandestini o clandestini; e sino a uomini variamente presenti all'interno dell'esercito, dei servizi, dei più diversi apparati dello Stato. Nel clima che abbiamo evocato, esasperato in modo parossistico dalla stampa di destra (da «La notte» a «Il Tempo», e naturalmente a "Il secolo d'Italia"), le aggressioni verso sedi e militanti di sinistra - o presunti tali - raggiungono grande intensità. Il peso della destra negli episodi di violenza - secondo un documentato studio - è pari al 95% tra il 1969 e il 1973, all'85% nel 1974 e al 78% el 1975 [1]. Anche la ricerca coordinata da Marco Galleni fa cogliere da vicino il crescente dispiegarsi delle violenze contro persone o cose compiute dai gruppi neofascisti: dalle 148 del 1969 (contro le 10 attribuite alla sinistra) alle 286 del 1970, sino alle 460 del 1971 [2]. Nell'autunno del 1971 la giunta regionale lombarda presenta i risultati di una propria indagine: vi sono stati 400 episodi di violenza fascista nella regione dal 1969, uno ogni due giorni [3]. Di lì a poco, bombe rivendicate dalle Sam (Squadre d'azione Mussolini) colpiranno l'abitazione del procuratore generale di Milano Luigi Bianchi d'Espinosa, che aveva avuto l'ardire di incriminare il segretario del Msi Giorgio Almirante e altri dirigenti del partito per ricostituzione del partito fascista. E' il periodo in cui Almirante chiama allo scontro «anche fisico» con i comunisti [4] e vari documenti confermano l'azione paramilitare di strutture specifiche del Msi e delle sue organizzazioni giovanili. [...]
Nei giorni e nei mesi successivi al 12 dicembre l'escalation di violenza neofascista è segnalata dagli stessi prefetti: da Palermo a Trieste, da Napoli a Brescia, da Trento a Bergamo, da Torino a Cuneo o a Varese (ove inizia una delle attività squadristiche più intense). Nello stesso torno di tempo sono esponenti neofascisti a cavalcare la rivolta più eversiva di quegli anni, quella di Reggio Calabria: vicenda a sé, certo, ma tale da galvanizzare comunque le manifestazioni missine di tutta Italia [5]. Si lasci da parte, per ora, la rivolta di Reggio, e si lascino da parte anche i segnali che trapelano su azioni estreme, e sin sul golpe che Junio Valerio Borghese tenterà a dicembre: con risvolti farseschi ma con meno farseschi collegamenti con settori dei servizi segreti e delle forze armate. [...]
E' però Milano la città in cui lo squadrismo si presenta con più virulenza. Il quadro tracciato dall'inchiesta condotta dalla Regione è confermato anche dai rapporti prefettizi, che pur si limitano ai casi più gravi: anch'essi segnalano un crescendo continuo di aggressioni, sino agli episodi che costellano la campagna elettorale del Msi. Si legga quello relativo al comizio in piazza Duomo del segretario del partito Almirante, il 24 maggio 1970, cui parteciparono tremila missini:
At termine comizio partecipanti, nonostante ogni preventivo avvertimento organi polizia improvvisavano corteo con inni fascisti portandosi ottagono galleria ove inscenavano violenta gazzarra anche con lanci bottiglie molotov et petardi provocando reiterati interventi forza pubblica predisposta. Da quel momento dimostranti frazionatisi in gruppi di varia consistenza ma non inferiori at due o trecento persone davano luogo ad azioni di guerriglia e gravi disordini in vasta area centro cittadino [6].
Poco dopo, il prefetto comunica che - a seguito di «reiterati episodi di violenza» - la questura ha inoltrato alla magistratura «documentati rapporti intesi evidenziare pericolosa attività maggiori esponenti di organizzazioni neofasciste facenti capo at nota associazione "Giovane Italia"» [7]. Altri rapporti segnalano una costante presenza di neofascisti organizzati fra la sede della Giovane Italia e piazza San Babila, in pieno centro di Milano [8], con continue aggressioni e periodiche spedizioni verso i luoghi di ritrovo del movimento studentesco [9]. Dal canto suo, il «comitato per la difesa dell'ordine repubblicano» (che comprende tutti i partiti, ad esclusione del Msi) denuncia il succedersi per mesi di «atti di teppismo, aggressioni, devastazioni compiute da alcue decine di mercenari, squallidi individui prezzolati [...] tollerati dalla polizia che li lascia agire in armi e aggredire sotto i propri occhi» [10].
Questo dunque è il quadro [...].


1 D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna 1984, p. 25; [...].
2 Rapporto sul terrorismo, a cura di M. Galleni, Milano 1981.
3 Cfr. Violenze fasciste: una ogni due giorni, 400 episodi dal 1969 ad oggi, in «Il Giorno», 22 ottobre 1971. Cfr. inoltre Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia, testo integrale della Commissione d'inchiesta nominata dalla Giunta della Regione Lombardia, Roma, 1975; [...].
4 Almirante a Firenze chiama allo scontro «anche fisico» con i comunisti, in «Il Giorno», 6 giugno 1972.
5 «Battipaglia, Reggio, a Milano [o a Roma, ecc.] sarà peggio», si grida nelle manifestazioni missine.
6 Rapporto del 24 maggio 1970 [...].
7 Cfr. il rapporto del 24 giugno 1970 [...].
8 Presidente della Giovane Italia milanese, in questo periodo, è Ignazio La Russa: cfr. «Il Secolo d'Italia», 5 e 10 marzo 1971. Nel 1971 - sempre secondo «Il Secolo d'Italia», 10 marzo 1971 - della Direzione provinciale giovanile del Msi e del «comitato di coordinazione» fanno parte fra gli altri, oltre a La Russa, Gianluigi Radice (segretario provinciale, arrestato e processato diverse volte per aggressioni e scontri con la polizia, sino all'arresto che lo colpisce dopo l'assassinio dell'agente di polizia Antonio Marino), Nestore Crocesi (arrestato nel 1970 per l'assalto alla federazione del Pci di Brescia, colpito da mandato di cattura nel 1972 per gli attentati delle Sam-Squadre d'azione Mussolini ecc.) e altri ancora. Gli articoli citati sono riprodotti nel Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia cit., pubblicato dalla Regione, sul quale mi baso anche per le altre informazioni.
9 [...] Un massiccio tentativo di assalto all'Università Statale è messo in atto a febbraio: cfr. Dopo una manifestazione «europea» volevano assalire la Statale. Con cariche e lacrimogeni dispersi i fascisti, e G. Bocca, A proposito del raduno neonazista di Milano. In attesa degli spostati, in «Il Giorno», 2 e 4 febbraio 1970; cfr. inoltre Anarchici in centro, i fascisti alle armi, ivi, 24 marzo 1970; I fascisti scatenati devastano il centro, ivi, 25 maggio 1970; [...].
10 Il testo del comunicato è in Basta con i fascisti al centro della città, in «Il Giorno», 18 giugno 1970. E' una realtà documentata da molteplici testimonianze: «i fascisti stazionano [...] a piazza San Babila e in corso Monforte [...], pestano i "rossi" riconoscendoli dalla barba e dai jeans, insultano chi rifiuta la loro stampa [...]; e lì, agli angoli della piazza, ci sono i jeeponi della Celere con su i poliziotti immobili, che non vedono e non sentono»: G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-80, Milano 1981, p. 53; cfr. inoltre Cederna, Pinelli, p. 29.


Da: Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, pp. 368-373




L'inizio di "Sbatti il mostro in prima pagina" di Marco Bellocchio del 1972.
Ignazio La Russa a Milano in una manifestazione della "Maggioranza silenziosa" (sono presenti bandiere italiane con lo stemma dei Savoia perchè di tale organismo anticomunista facevano parte anche i monarchici):
"Gli italiani che non hanno rinunciato all'appellativo di uomini si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute, al di sopra dell'ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo, si uniscano per dire sì alla libertà dell'ordine. Questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell'Italia, e insieme lo faremo. Viva l'Italia!"

mercoledì 28 luglio 2010

Prima linea a Firenze

Vi sfodero la prima pagina dell'introduzione alla mia tesi di laurea.


La presente ricerca si propone di indagare l’attività svolta a Firenze dall’organizzazione combattente Prima linea nel periodo compreso tra il 1977 e il 1979.
L’intendimento principale è stato quello di effettuare, attraverso lo spoglio di una fonte giornalistica, una ricostruzione cronologica dell'operato della formazione armata suddetta. La fonte ritenuta più confacente allo scopo prefissato è stata individuata nel quotidiano “La Nazione”.
Il movente che ha indirizzato verso la scelta di tale tematica è stato lo scorgere, nell’ambito della storiografia sulla lotta armata, una serie di lacune su tutta quell’esperienza di violenza politica organizzata non riconducibile a una matrice brigatista. La riflessione critica, infatti, su ciò che è stato in Italia il fenomeno terroristico negli anni Settanta del Novecento, è stata a lungo monopolizzata da un’attenzione quasi esclusiva alla storia delle Brigate rosse, trascurando colpevolmente “l’altra lotta armata”, vale a dire quella pratica armata definibile “movimentista” (scaturita cioè dal movimento e che a esso faceva riferimento). Mancando un’analisi sistematica, il che si riscontra nell’assenza di testi storiografici esaurienti, la conoscenza di Prima linea, e quindi la sua comprensione, viene a risultare poco accurata. Le uniche monografie di cui disponiamo, vale a dire il volume di Giuliano Boraso, “Mucchio selvaggio”[1] e i due lavori di Sergio Segio, “Miccia corta”[2] e “Una vita in Prima linea”[3], non possono essere accolte se non senza riserve. La pecca principale dell’opera di Boraso è il fatto che nel testo non venga affrontata una riflessione metodologica e di critica delle fonti, facendo sì che la trattazione risulti viziata da luoghi comuni e linee interpretative poco solide. Gli elaborati di Segio appartengono invece al genere memorialistico, e come ogni testimonianza autobiografica applicata alla ricerca storica, pongono necessariamente complesse problematiche metodologiche. Nicola Tranfaglia, a questo proposito, ci prospetta, nella prefazione a un testo che raccoglie memorie di ex-militanti, le criticità nell’utilizzarle quali fonti della ricostruzione storica:
La testimonianza è una fonte che deve essere letta con particolare cautela sia perché, sia pure di frequente, in maniera del tutto inconscia, può esserci un intento di giustificazione, sia perché i fatti a cui la testimonianza si riferisce sono accaduti, almeno in parte, alcuni anni fa e la successiva critica compiuta dai testimoni può per qualche aspetto aver sbiadito e reso opaco il ricordo di quel passato[4].
L’approssimazione interessa persino la semplice ricomposizione circostanziata della “prassi rivoluzionaria”, portata avanti, nei pochi ma densi anni in cui è stato attivo, dal raggruppamento armato. In questo ammanco finanche dei dati più basici, sulla scorta dei quali poter poggiare una meditazione fondata, si è scorto un margine praticabile di intervento. Tramite lo spoglio della fonte giornalistica quotidiana, si è voluto provvedere a ricomporre le azioni armate compiute prevalentemente nel contesto fiorentino, ma con una prospettiva dischiusa anche al quadro nazionale.
L’aspirazione di fondo che ha permeato la realizzazione del presente elaborato, è stata quella di poter contribuire, sia pur in modesta parte, alla ricostruzione, ergo alla comprensione, della complessità degli anni in cui, da parte di settori minoritari interni al mondo di sinistra, venne esperita la via della lotta armata quale strumento per la trasformazione del presente.


1 G. Boraso, Mucchio selvaggio, Roma, Castelvecchi, 2006.
2 S. Segio, Miccia corta, Roma, DeriveApprodi, 2005.
3 Id., Una vita in Prima linea, Milano, Rizzoli, 2006.
4 D. Novelli - N. Tranfaglia, Vite sospese, Garzanti, Milano, 1988, p. 12.

martedì 27 luglio 2010

Le ultime (due) lettere di Aldo Moro. Davvero le ultime.

96. Alla moglie Eleonora [1]

Tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche [2] contro la D.C. Luca no al funerale [3].

Mia dolcissima Noretta,
dopo un momento di esilissimo ottimismo [4], dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo [5], al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. E' sua va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E' poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare [6]. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un'unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo


1 Recapitata il 5 maggio, insieme con la successiva, da don Mennini, ma la data di stesura potrebbe essere antecedente. Non è presente tra i dattiloscritti ritrovati nell'ottobre 1978, né tra le fotocopie dei manoscritti di dodici anni dopo. L'originale è riprodotto negli
Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. E' lettera autonoma dalla seguente. Lo stesso giorno, qualche ora prima, il comunicato n.9 delle Br annunciava: «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Divulgata il 13 settembre 1978 dal «Corriere della Sera», p.6, ma fu pubblicata per la prima volta integralmente e in modo autonomo dalla successiva, in Aldo Moro, L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, pp. 427-28.
2 Si distingue una
«t» corretta: forse in precedenza aveva scritto «politiche».
3 E' il solito esergo aggiunto posteriormente nello spazio residuo del foglio.
4 Questa espressione non sembra essere giustificata dai toni sicuri delle due versioni della lettera a Zaccagnini e soprattutto del perentorio argomentare delle pagine finali del "Memoriale", che non sono certo il prodotto di un «esilissimo ottimismo».
5 Il prigioniero, rispetto alla lettera successiva, «crede» ancora, cioè non è del tutto sicuro di morire: in 55 giorni sarebbe questa la terza volta in cui vive un simile stato emotivo di imminente minaccia di morte.
6 A proposito di questa raccolta di firme, Guerzoni ha testimoniato in Commissione stragi, il 6 giugno 1995: «L'onorevole Moro chiese la raccolta di cento firme per convocare il Consiglio Nazionale e noi arrivammo a ventinove, a quel punto dissi che non avrei più collaborato per cercare le firme, perché non volevo che l'onorevole Moro rimanesse alla storia come colui che aveva determinato la rottura formale del partito. A mio parere infatti l'onorevole Moro non voleva la rottura del partito; semmai che venissero in evidenza delle contraddizioni. Tanto più ero convinto di questo, perché sapevo che egli non sarebbe mai tornato e che quindi oltretutto avremmo fatto delle operazioni di significato storico che non servivano nemmeno a salvarlo». Secondo la testimonianza di Vittorio Cervone, fra i promotori nel 1968 della corrente democristiana "Gli amici di Aldo Moro", il 9 maggio, alle 13, i principali esponenti del gruppo, erano riuniti a pranzo al ristorante il «Barroccio» e stavano decidendo di chiedere la convocazione del Consiglio nazionale della Dc, quando furono raggiunti dalla tragica notizia del ritrovamento del cadavere dell'uomo politico (Vittorio Cervone, Ho fatto di tutto per salvare Moro, p. 44).


97. Alla moglie Eleonora
¹

Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza², giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue.
Prega per me, ricordami soavemente Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti
Aldo

1 Recapitata il 5 maggio tramite don Mennini, ma la data di stesura potrebbe essere antecedente. L'originale è riprodotto negli Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Fu pubblicata per la prima volta in Aldo Moro, L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, p. 427.
2 Anche qui si noti che
«esile speranza» non giustifica la perentorietà dei toni usati da Moro nelle lettere a Zaccagnini e nelle ultime pagine del "Memoriale".


Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 177-179

9 maggio 1978 - via Caetani, Roma (Gianni Giansanti)

lunedì 26 luglio 2010

Per me, è finita.

67. Alla moglie Eleonora¹

Mia dolcissima Noretta,
credo che questa sia proprio l'ultima. Per ragioni misteriose mi sembra preclusa qualsiasi speranza. Non si sa neppure approssimativamente, che cosa accada, in che si concludano le varie inziative delle quali [una] volta [...] si parla. Il Papa non può fare niente neppure dimostrativamente, in questo caso? Perché avevamo tanti amici, a schiere. Non una voce ch'io sappia, si è levata sin qui. Di voi ho ricevuto la sola lettera del "Giorno", che volevo portare sul petto, così per farmi compagnia, all'atto di morire². Ma si è perduta nel pulire la prigione. Per quanto abbia chiesto, non ho saputo altro. Quasi pensavo di aver fatto qualcosa di vergognoso. Ma è il meccanismo, deve essere così. Ed a voi devono avere consigliato (proibito) di fare qualsiasi protesta, che non sarebbe servita a nulla, ma avrebbe dimostrato che io qualche persona cara l'ho ancora. E' stato tutto freddamente determinato ed io sono stato trattato, come se solo mi fossi servito della D.C. Ma non hanno nemmeno un momento esaminato la situazione, per vedere che cosa era opportuno fare, salvare il salvabile, capire. Una spaventosa improvvisazione. Per me, è finita. Penso solo a voi e, se non sono oppresso fino alla follia, vi richiamo, vi rivedo, da grandi e da piccoli, da anziani e da giovani. E tra tutti il dilettissimo Luca con cui passo ancora i momenti disponibili. E poi il dubbio della vostra salute, la ragione del vostro silenzio. Spero che Freato e Rana vi seguano. I nostri dopo 40 giorni si saranno un po' abituati, ma dimenticati, spero, no. Se a Torrita non venite, comincia col tenermi a Roma, o nella chiesa di Torrita. Abbracciameli tutti tutti, uno ad uno, ogni giorno, come avrei fatto. Ricordatemi un po', per favore. Io sono cupo e un po' intontito. Credo non sarà facile imparare a guardare e parlare con Dio e con i propri cari. Ma c'è speranza diversa da questa? Qualche volta penso alle scelte sbagliate, tante; alle scelte che altri non hanno meritato. Poi dico che tutto sarebbe stato eguale, perché è il destino che ci prende. Mentre lasciamo tutto resta l'amore, l'amore grande grande per te e per i nostri, fatto di tanta incredibile e impossibile felicità. Che di tutto resti qualche cosa. Ti abbraccio forte, Noretta mia. Morirei felice, se avessi il segno di una vostra presenza. Sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla.

Dio ti benedica con tutti
Aldo

¹ Non recapitata. Ritrovata come fotocopia di manoscritto nell'ottobre 1990 (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia). Scritta intorno al 25 aprile come si deduce dal riferimento ai quaranta giorni di prigionia trascorsi.

² Il riferimento dovrebbe essere alla lettera pubblicata ne «Il Giorno» il 7 aprile, perché della lettera scritta il 26 aprile dai familiari sostiene di non sapere ancora nulla. Secondo il giornalista de «L'Espresso» Mario Scialoja questo brano sarebbe un ulteriore segnale dell'esistenza di un canale di ritorno in quanto considera inverosimile che Moro volesse portarsi al petto «all'atto di morire» una semplice pagina di giornale (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, audizione del 14 marzo 2000).


Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 123-124.

domenica 25 luglio 2010

Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.

34. Alla moglie Eleonora [1]

Mia dolcissima Noretta,
credo di essere giunto all'estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi, per i quali mi ero ripromesso di scriverti, sono falliti. Il rincrudimento della repressione, del tutto inutile, ha appesantito la situazione. Non sembra ci sia via d'uscita. Mi resta misterioso, perché è stata scelta questa strada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio. Già ora si vede che vuol dire non avere persona capace di riflettere. Questo dico, senza polemica, come semplice riflessione storica. Ora vorrei abbracciarti tanto e dirti tutta la dolcezza che provo, pur mescolata di cose amarissime, per avere avuto il dono di una vita con te, così ricca di amore e di intesa profonda. Dio sa quanto avrei sperato di accompagnarvi ancora un poco, di dare custodia ed aiuto all'amatissimo Luca, di aiutare tutti a superare le prove del duro cammino. Ho tentato tutto ed ora sia fatta la volontà di Dio, credo di tornare a voi in un'altra forma. Non mi so immaginare onorato da chi mi ha condannato. Ma fa [2] tu, con spirito cristiano e senso di opportunità. Vi ho affidato a Freato e Rana per ogni necessità ed ho fiducia che Iddio vi aiuti. Tu curati e cerca di essere più tranquilla che puoi. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo. Ho scritto a tutti per Luca, perché siano impegnati per lui. A te debbo dire grazie, infinite grazie, per tutto l'amore che mi hai dato. Amore un po' geloso che mi faceva innervosire, quando ti vedevo «sprofondata» [3] in un libro. Ma amore autentico che resterà. Io pregherò per te e tu per me. Che Iddio aiuti la cara famiglia. In estate, al mare, fatti fare compagnia dalla famiglia Riccioni per te e per il piccolo. Ho lasciato il mio archivio a Luca da vendere tramite il Sen. Spadolini e il Dott. Guerzoni per costituire un piccolo peculio che lo aiuti a mantenersi nella vita. Ho dimenticato di dire, ma tu dillo a Guerzoni che per le foto i familiari e gli esecutori testamentari scelgano quelle che vale la pena di conservare alla famiglia. Nel magnetofono più grande, che è nel mio studio, ci sono già raccolte vocette di Luca trasferite da quello tascabile. Si può mano a mano trasferire e completare. Le bobine sono in camera nostra; film e foto sulla scrivania dello studio. Vorrei, come piccolo ricordo, che il biro della mia vestaglia da giorno andasse a Luca che lo amava «e il portacenere a Giovanni», un altro «pennarello» marrone nel comò a Giovanni, un biro uguale al primo sulla chiffonière ad Agnese, mentre Fida e Anna e tu potreste scegliere in quel mobile quel che volete. Sentite Manzari, vedi di fare testamento [4]. Io ne ho mandati due che spero siano arrivati e rinvierò in copia. Non mancare di fare e far fare la vaccinazione antinfluenzale, se viene la russa. Fatti seguire da Giuseppe [5] anche come amico. Tramite Rana fa controllare la stabilità del tetto sulla nostra stanza «e cura che il gas sia chiuso la sera. (Agnese)». Per la tomba di Torrita [6] «almeno nell'immediato c'è» rischio di sicurezza. Forse converrebbe alloggare altrove, [o su di lì] stesso «o nella chiesa con speciale permesso». Forse, per ora: consigliati con Freato. Chissà quante cose ho dimenticato. State più uniti che potete e tenete unite anche le mie cose con voi, perché sono vostro. Ho pregato molto La Pira. Spero che mi aiuti in altro modo [7].
Ringrazio tutti, tutti i parenti ed amicicon grande affetto. Che Iddio ci aiuti. Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita. Ricordatemi discretamente a Luca con qualche foto e qualche descrizione, che non si senta del tutto senza nonno. E poi che sia felice e non faccia i miei errori generosi ed ingenui.
Ti abbraccio forte forte e ti benedico dal profondo del cuore. A nonna un bacio, nella forma che troverai.
Aldo

¹ Non recapitata. Lettera ritovata solo nell'ottobre 1990 come fotocopia di manoscritto (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia).

² Manca l'apostrofo nella fotocopia del manoscritto.
³ La parola sostituisce un poco comprensibile «spaventato» cancellato.
4 Giuseppe Manzari, amico di Moro dai tempi dell'università e suo consigliere giuridico, ne era stato il capo di gabinetto quando era ministro dell'Istruzione dal 1957 al 1959 e alla presidenza del consiglio dal 1963 al 1968 e dal 1974 al 1976. Allora era presidente della Sezione del Consiglio di Stato e capo del contenzioso diplomatico presso il ministero degli Esteri. Il 21 Gennaio 1977, Moro gli aveva inviato le bozze del testamento suo e della moglie per avere un consiglio da lui (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi).
5 Il riferimento dovrebbe essere ancora a Giuseppe Manzari poiché il raddoppio delle «p» è sufficientemente chiaro. [...]
6 Segue una parola cancellata.
7 Giorgio La Pira, terziario domenicano, professore di Diritto romano, fu uno dei padri costituenti lavorando nella Commissione dei 75 vicino al cosiddetto gruppo dei "professorini" Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati e il più giovane Moro. Sindaco molto amato di Firenze per due mandati dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1965, morì nel 1977 in fama di santità e in suo onore è stata aperta una causa di canonizzazione. Il primo a drizzare le antenne su questo passo, sconosciuto fino all'ottobre 1990, è stato Sofri, L'ombra di Moro, p.41, notando che proprio il nome di La Pira era stato invocato, insieme con quello di don Luigi Sturzo, in occasione di una seduta spiritca, che si tenne il 2 Aprile 1978 in un casolare a Zappolino, nei pressi di Bologna. Come è noto, nella circostanza si erano riuniti per passare il giorno di festa insieme con le loro famiglie, un gruppo di docenti universitari, fra cui Alberto Clò, Mario Baldassarri e Romano Prodi. Nel corso della seduta, avvenuta colo cosiddetto metodo del piattino, emersero in rapida successione le indicazioni di "Gradoli, Bolsena, Viterbo" come luogo di prigionia di Moro. Il 6 aprile la polizia si recò in "accurato perlustramento" nell'omonimo paese del viterbese perché Prodi ritenne opportuno informare del fatto il portavoce di Zaccagnini che, a sua volta, contattò Luigi Zanda Loy, il capo ufficio stampa di Cossiga (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi). Quando, il 18 Aprile 1978, venne scoperto il covo di via Gradoli a Roma, ove si recava a dormire Moretti nel corso del sequestro, sorsero illazioni, sospetti e curiosità di ogni tipo e perciò l'episodio della seduta spiritica fu gradualmente portato a conoscenza del grande pubblico trasformandosi in un vero e proprio luogo comune del caso Moro e delle sue misteriologie. Non subito, però, perché Prodi, nominato il 28 novembre 1978 ministro dell'Industria, venne interrogato dalla magistratura per la prima volta il 22 dicembre 1978, insieme con Clò. Lo studioso della Rivoluzione francese Georges Lefebvre ha insegnato agli storici ad essere sensibili all'origine delle notizie, al modo con cui iniziano a circolare e si alimentano col trascorrere del tempo. Si segnala, dunque, che il calcio d'inizio pubblico di quest'annosa partita - passata nel corso di oltre vent'anni al vaglio della magistratura e di ben due commissioni di inchiesta parlamentare - dovrebbe essere un articolo del 17 ottobre 1978 di Roberto Martinelli e Antonio Padellaro, "Dov'è il leader dc?", chiesero allo spirito di La Pira. E la risposta arrivò col posacenere: "Gradoli...095", in «Corriere della Sera», p.7, in cui si raccoglievano, tra virgolette, le presunte dichiarazioni di un "professore bolognese", ancora per poco, coperto dall'anonimato.


Criteri di trascrizione

I documenti pubblicati in questa sede sono pervenuti in originale manoscritto (nel periodo 16 marzo - 9 Maggio 1978), in copia dattiloscritta (ritrovati, a Milano, in via Monte Nevoso, il Iº ottobre 1978) e in fotocopia di manoscritto (rinvenuti a Milano, in via Monte Nevoso, il 9 Ottobre 1990). [...] Ho effettuato i seguenti interventi:

- tra parentesi quadre [ ] ho inserito le opportune integrazioni di lettere o parole omesse per evidenti sviste dello scrivente, dei fotocopiatori o nel caso di congetture ritenute altamente probabili;
[...]
- tra parentesi uncinate ho posto le parole scritte fra le righe o aggiunte dall'autore posteriormente fra due vocaboli [per problemi di linguaggio html, al posto delle parentesi uncinate ho utilizzato le virgolette «»];
[...]



Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. XXVIII, 62-65.

sabato 24 luglio 2010

... Passare la propria giornata a crescere le proprie forze, il proprio valore, la propria anima e cultura, per farle servire a qualcosa.

A Fernanda Pivano, Mondovì Breo.


[Roma,] venerdì [4 giugno 1943]

Cara Fern,

non è vero che sono parole esistenzialiste. Io dell'esistenz. me ne infischio. Sono parole dell'esperienza - che conta molto di più. E del resto Lei non ci ha capito niente. Se la cava dicendo «Per gli altri cosa?» e poi passa e insiste a blaterare di sé e delle Sue disgrazie e che L'hanno amata troppo e che è ingrata e che è leggera e punita e rotolerà dai tetti ecc. Questa in inglese si chiama maudlin self-pity, piangolosa compassione di sè, ed è un male che conosco bene per essere stato la mia tentazione continua per più di trent'anni. Dice di averne ventisei e si comporta come un bambino di dieci. Io andavo sempre sull'aia, vicino al letame, e mi sporcavo le gambe, e dicevo «Ecco tutti mi scacciano, io sono solo, sono nel letame, puzzo, mi piangono gli occhi, io sono un disgraziato, io sono stupido ecc.» Non Le manca che di avvoltolarsi nel letame e poi sarà completa. Ebbene, provi il letame, a Mondovì non ne mancherà: si spogli nuda e ci si rotoli dentro. Capisce il simbolo? Ma si ricordi una cosa: io, nel più forte del mio masochismo, dicevo «Ma verrà un giorno che li mangerò tutti, che sarò un grand'uomo, che farò qui, che farò là ecc.» Tra una cosa e l'altra ci si può salvare. Avrà il diritto di lamentarsi quando avrà fatto qualcosa, sinora no perché non ha provato. E se le consigliavo di donarsi e non di chiedere, è perché la miglior prova che valiamo qualcosa sta nell'aver fatto qualcosa per gli altri, proprio quegli altri che Lei ignora per matta bestialità. Si capisce che, così a occhio e croce, gli altri non esistono nemmeno; ma bisogna donarsi appunto perché questo è l'unico modo per farli esistere, e allora non si è più soli, allora si vale quel tanto appunto che si è donato. Donarsi come?
Donarsi vuol dire rispettare sé stessi, anzitutto, cioè passare la propria giornata a crescere le proprie forze, il proprio valore, la propria anima e cultura, per farle servire a qualcosa. Donarsi vuol dire non avere tempo di guardare al passato e quindi non compiangersi. Mi fa ridere coi suoi 26 anni. Si può cominciare a 40. Lei pensa all'età unicamente perché è ancora prigioniera della Sua vecchia forma mentis che giudica le ragazze dal loro rendimento sessuale e quindi ritiene che il più bello sia passato a 26 anni. Storie.
Del resto, anche con questa storia, la faccia finita. Si faccia violare dal primo atleta che Le capita e poi vedrà le cose con gli occhi più chiari. È un consiglio disinteressato che Le do. E a proposito di gambe non dica nemmeno per scherzo che se le romperebbe, perché quando si hanno belle come le sue è un delitto.
Non Le scrivo che cosa faccio né chi vedo perché tanto Lei non si interessa degli altri.
Brontolo!

venerdì 23 luglio 2010

E questo è tutto.

A Fernanda Pivano, Mondovì Breo.



[Roma,] domenica 30 [maggio 1943]

Cara Fern,

la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l'ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all'indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore - di studio, di affetti, d'interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» - e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo - una nostra impiegata è stata arrestata¹ - e s'immagini le grane.
Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare - tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.
Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. E' solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.
La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte - che non mi dispiacerebbe. Ma intanto - tira e molla - non faccio più niente e non ho più pace. La smetta con quella stupida storia dell'assegno. Pensi piuttosto a tradurre l' Addio, e con l'assegno si comperi un monopattino.
Coraggio e arrivederci.
Pavese


¹ Tra i numerosi arresti per attività antifascista del maggio 1943 a Roma, vi era stato anche quello di Lola Berardelli (futura moglie di Felice Balbo), arrestata negli uffici della casa editrice in via Claudio Monteverdi.


Da: Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, vol. 2, a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1966, pp. 458-459.