lunedì 28 settembre 2009

La religione è la cocaina dei popoli

Il testo che segue è un trancio di un articolo di Umberto Eco pubblicato su Repubblica il 25 Settembre 2009 (rielaborazione di un precedente articolo del dicembre 2007 pubblicato nella sua rubrica sull'Espresso "La bustina di Minerva") che parla di Saramago e del suo nuovo libro in uscita "Il Quaderno" di cui Eco ha composto la prefazione. Del libro in questione, raccolta degli interventi del blog di Saramago "O Caderno de Saramago", aveva già parlato oh cielo! tempo fa; nel frattempo però il blog ha chiuso.

[...] Si è detto dell'ateismo militante di Saramago. In effetti la sua polemica non è contro Dio: una volta ammesso che «la sua eternità è solo quella di un eterno non essere», Saramago potrebbe starsene tranquillo. Il suo astio è verso le religioni (ed è per questo che lo attaccano da varie parti, negare Dio è concesso a tutti, polemizzare con le religioni mette in questione le strutture sociali). Una volta, proprio stimolato da uno degli interventi antireligiosi di Saramago, avevo riflettuto sulla celebre definizione marxiana per cui la religione è l' oppio dei popoli. Ma è vero che le religioni hanno tutte e sempre questa virtus dormitiva? Saramago a più riprese si è scagliato contro le religioni come fomite [motivo] di conflitto: «Le religioni, tutte, senza eccezione, non serviranno mai per avvicinare e riconciliare gli uomini e, al contrario, sono state e continuano a essere causa di sofferenze inenarrabili, di stragi, di mostruose violenze fisiche e spirituali che costituiscono uno dei più tenebrosi capitoli della misera storia umana» ( la Repubblica, 20 settembre 2001). Saramago concludeva altrove che «se tutti fossimo atei vivremmo in una società più pacifica». Non sono sicuro che avesse ragione,e sembra che indirettamente gli avesse risposto papa Ratzinger nella sua enciclica Spe salvi dove diceva che è l' ateismo del XIX e del XX secolo, anche se si è presentato come protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale, che ha fatto sì che «da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia». Forse Ratzinger pensava a quei senzadio di Lenin e Stalin, ma dimenticava che sulle bandiere naziste stava scritto Gott mit uns (che significa «Dio è con noi»), che falangi di cappellani militari benedicevano i gagliardetti fascisti, che ispirato a principi religiosissimi e sostenuto da Guerriglieri di Cristo Re era il massacratore Francisco Franco (a parte i crimini degli avversari, è pur sempre lui che ha cominciato), che religiosissimi erano i vandeani contro i repubblicani che avevano pure inventato una Dea Ragione, che cattolici e protestanti si sono allegramente massacrati per anni e anni, che sia i crociati che i loro nemici erano spinti da motivazioni religiose, che per difendere la religione romana si facevano mangiare i cristiani dai leoni, che per ragioni religiose sono stati accesi molti roghi, che religiosissimi sono i fondamentalisti musulmani, gli attentatori delle Twin Towers, Osama e i talebani che bombardavano i Buddha, che per ragioni religiose si oppongono India e Pakistan, e che infine è invocando God bless America che Bush ha invaso l' Iraq.
Per cui mi veniva da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata l' oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Credo che anche questa sia l' opinione di Saramago e gli regalo la definizione - e la sua responsabilità. [...]

Inoltre in questo stesso articolo per sottolineare che "Saramago non fa complimenti, ovvero non le manda a dire", Eco si lancia in un gustoso virtuosismo, una tripla citazione carpiata con paradosso finale:
"Cito (a memoria) Borges che citava (forse a memoria) il dottor Johnson che citava il fatto di quel tale che così insultava il proprio avversario: «Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando»."


P.s. Ho immesso nelle Traslazioni la rubrica di Eco sull'Espresso denominata "La bustina di Minerva".

sabato 19 settembre 2009

KOSI' E' MEGLIO



Da qualche giorno l'opera d'arte "Arcobaleno di Pace - Il tempo dell'uomo", posta al centro della rotonda davanti a Pratilia, è stata dotata/deturpata di mutande-boxer a vestire il povero uomo vitruviano. "Kosì è meglio" con tanto di "K" adolescenziale porta con sé una domanda: ma forse non è veramente meglio Kosì?
Nonostante l'atto vandalico (da condannare) l'opera deturpata ha suscitato in me maggiore interesse di prima risvegliando secolari diatribe antico VS moderno.
"Il faut etre de son temps" "Appartenere al proprio tempo" era uno dei motti principali dei realisti di metà '800, nonostante l'esigenza di contemporaneità fu propugnata già prima.
Quanto l'uomo vitruviano rispecchia ancora il nostro tempo tanto da metterlo al centro di uno ormai (ahimè) dei simboli urbani della nostra città: la rotonda?!
L'arte contemporanea è (o è stata) un lungo processo di perdita dell'unitarietà e dell'antica armonia. Artisti delle avanguardie rifiutarono categoricamente l'arte del passato, citando e dissacrando quelle opere d'arte che erano delle certezze ma non potevano più essere autentiche nella loro epoca, la bellezza è un retaggio del passato. Come d'altronde fecero nel cinema i registi della Nouvelle Vague negli anni '60, prendendo a modello ma rifiutando il cinema classico americano.



Marcel Duchamp - Mona Lisa Parody (1912?)


Arnulf Rainer - Bundle in face (1974)





da una scena di "Fino all'ultimo respiro" di J.L. Godard (1960). Jean Paul Belmondo imita Humprey Bogart.

lunedì 14 settembre 2009

Le Nuvole

Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio
Certe volte sono bianche

e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia


Nel 1990 esce il dodicesimo album di studio di Fabrizio De André, intitolato Le Nuvole, della cui prima e omonima traccia avete riportato il testo. L’ascolto, prima di proseguire la lettura, è obbligatorio [abbisogno della password per le colonne foniche, ho perso tutto]

[…]

Il titolo dell’abum è squisitamente politico, ed è un richiamo diretto alla nota e ancora omonima commedia di Aristofane. Nell’opera del commediografo greco “le Nuvole” rappresentano i sofisti, cattivi consiglieri e contestatori (tra i quali viene annoverato, suo malgrado, il povero Socrate, in qualità di esponente principale della categoria) i quali, secondo De André

indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell'Atene di quei tempi. […]”

D’altro canto

Le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell'album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.”

Ecco spiegata la bipartizione del disco in due parti, una in italiano (che rappresenta i potenti - primi quattro brani) e l’altra in dialetto (i.e. il popolo, secondi quattro). Utilizzando tale chiave di lettura si interpreta poi anche il frinire iniziale delle cicale, che apre il brano (sarà ripreso anche al termine), e che rappresenta “le chiacchiere dei ricchi, dei potenti, delle nuvole” nel loro significato metaforico.

se da una parte ci obbligano ad alzare lo sguardo per osservarle, dall'altra ci impediscono di vedere qualcosa di diverso o più alto di loro. Allora le nuvole diventano entità che decidono al di sopra di noi e cui noi dobbiamo sottostare, ma, pur condizionando la vita di tutti, sono fatte di niente, sono solo apparenza che ci passa sopra con indifferenza e noncuranza per nostra voglia di pioggia...

(Da Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 146)


“Per la messa, pare un cammello davvero”
Ecco, chiarito il significato metaforico della matassa di acqua in sospensione dato da De André, vorrei liberarmene subito. Lo scopo è quello di depoliticizzare le nuvole, per poterne prenderne in considerazione un altro aspetto, meno opprimente e oscurantista. Si tratta di quell’ aspetto metamorfico, plastico e sorprendente che fa delle nuvole un affascinante esercizio di immaginazione per bambini. Da questo, secondo me, deriva il suo fascino anche la canzone di De André. Considereremo dunque il lato fantastico (nel senso di stimolante la fantasia) delle nuvole, l’airone e la pecora, che gli infanti vedono meglio, ma che anche il vecchio Aristofane, dal canto suo, aveva già colto:

SOCRATE:
- “Non vedesti mai, guardando il cielo nuvole simili a una centauro, o ad una pantera, o ad un toro”?
LESINA:

- "Senza dubbio! E con questo?"
SOCRATE:

- "Mutano di forma a lor piacere.Se vedono un di questi dalle gran capelliere,ricoperti di peli tutti quanti, un selvatico sul fare di Gerònimo, per beffar quel fanatico,si cangiano in centauri. "

(Aristoph. Nub. 346ss.)


Cangianti le nuvole, caleidoscopiche e multiformi. Shakespeare sembra registrarne l'analogo effetto in una delle sue opere più conosciute, The Tragical History of Hamlet, Prince of Denmark, nelle parole del ciambellano Polonio:


AMLETO:

- La vedete quella nuvola, che ha quasi la forma di un cammello?
POLONIO:

- Per la messa, pare un cammello davvero!
AMLETO:

- A me sembra una donnola.
POLONIO:

- Ha la schiena di una donnola.
AMLETO:

- O di una balena?
POLONIO:

- E' identica a una balena. "

(378-84)

HAMLET
Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?
POLONIUS
Bt th’mass and’tis, like a camel indeed.
HAMLET
Methinks it is like a weasel.
POLONIUS
Il is backed like a weasel.
HAMLET
Or, like a whale?
POLONIUS
Very like a whale


Data la sua posizione di galoppino\lacchè, Polonio può anche assere tacciato di menzogna nel compiacere il suo padrone stupendosi di fronte alla distesa di forme che sostiene avere davanti agli occhi. Il suo creatore, però, sembra nutrire per esse un fascino autentico, a giudicare almeno dalla bellissima descrizione con cui dipinge nuovamente la magia di nembi e cirri, evocandone la metamorfosi, in un bel passo dell’Antonio e Cleopatra:

ANTONIO
- A volte noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che ammiccano al mondo irridendo ai nostri occhi con un gioco d’aria. Tu hai visto segni come questi; sono il corteggio del buio vespertino.
EROS
- Sì, mio signore
ANTONIO
- Quello che ora è un cavallo, basta un pensiero e il nembo lo cancella, e lo rende indistinto come l’acqua nell’acqua.

Basta un pensiero. (Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?)

Apollonio di Tiana fu un filosofo pitagorico, vissuto all’epoca di Cristo, che girò il mondo predicando la sapienza e compiendo miracoli (anche lui). Filostrato ne scrisse la biografia, un “curioso e commovente documento del paganesimo al tramonto”. Lì racconta di come questi arrivò fino in India, dove ammirò alcuni rilievi in metallo eseguiti al tempo di Alessandro Magno e così si intrattenne col suo discepolo Damide (traendo conclusoni sulle nuvole simili a quelle accennate da Antonio):

-«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?»
-«Certo», ribatte Damide.
- «E in che cosa consiste quest’arte?»
- «Beh, - risponde Damide – nel mescolare i colori».
- «E perché lo fanno?”.
- «Per l’imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole».
- «Allora – insiste Apollonio - la pittura è imitazione, mimesi?».
- «Certo, che cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori ».
- «Già, - continua il suo mentore - ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?»
No, rispondono concordi i due, queste forme che vediamo nelle nubi non hanno significato in sé, sorgono per puro caso; siamo noi che siamo per natura portati all’imitazione e diamo forma a queste nubi.
- “Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l‘arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro è quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente? Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa e che nessuno può capire il cavallo o il toro dipinto se non conosce questi animali”

(cit da Gombrich 221,2)


A quanto pare sembra che le forme nelle nuvole ce le mettiamo noi, almeno in parte. Così la malìa sarebbe un auto-ammaliamento, e noi saremmo vittime della nostra stessa fantasia.
Ma secondo quale meccanismo?

domenica 13 settembre 2009

Fra Filippo, il saio e le donne.

I germi del rinascimento
Dal 1402 Lorenzo Ghiberti è impegnato alla fusione dei pannelli di bronzo della Porta Nord del Battistero, Donatello sta lavorando al 'David' del Bargello e, poco dopo, realizzerà per Orsanmichele le statue di San Marco e di San Pietro e, nel 1415-17, il San Giorgio con la sua predella a rilievo 'stiacciato' che contiene il primo esempio di prospettiva matematica inserita in un bassorilievo. La solenne riapertura, nel 1412, dell'Università di Firenze, si accompagna agli studi di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, che traducono Aristotele e Lucrezio, mentre gli emissari della compagnia di Giovanni 'di Bicci', vero fondatore della ricchezza della famiglia Medici, continuano a cercare e acquistare nei mercati d'Oriente i più rari esemplari di codici antichi. All'inizio degli anni Venti Filippo Brunelleschi dà il via, con il Loggiato degli Innocenti, al primo di una lunga serie di monumenti architettonici che diventano il manifesto del nuovo Rinascimento. Il 1427 infine è la data presunta per la composizione della Trinità di Masaccio, che sancisce il pieno possesso da parte dell’uomo dello spazio, razionalmente e proporzionalmente dominato attraverso l'uso della prospettiva. Siamo ai prodromi dell’umanesimo.

Filippo
Filippo di Tommaso Lippi nasce a Firenze nel 1406 da una famiglia modesta, che abita in Oltrarno nella contrada detta Ardiglione, fra via dei Serragli e il convento del Carmine.

(Versione 1- dal sito restaurofilippolippi.it) Persa la madre "non molto dopo averlo partorito", a due anni Filippo resterà orfano anche del padre Tommaso, di professione 'beccaio' (cioé macellaio), e viene affidato, insieme al fratello Giovanni, di due anni più grande alle cure monna Lapaccia, una zia sorella del padre. La povertà dei mezzi costringe la zia, dopo averlo "allevato con suo disagio grandissimo" fino all'età di otto anni, a chiedere aiuto ai frati carmelitani del vicino Convento del Carmine, che accolgono e allevano i due ragazzi cercando di dar loro un mestiere e un futuro.

(Versione 2- dalla monografia di Marchini) Come si ricava dall’atto di professione dei voti nel convento del Carmine di Firenze, stilato il 18 giugno Giugno 1421, la madre Antonia di Ser Bindo Servigi, vedova e “miserabile”, cioè sprovveduta di mezzi da non essere tassabile, lo aveva posto nel suddetto convento all’età di otto anni.


L'8 giugno del 1421 (18 per la monografia, che precisa “il milanesi aveva riferito erroneamente l’8”), superato come voleva la Regola il quattordicesimo anno d'età, Filippo professa i voti, mantenendo lo stesso nome di battesimo. Dal 1422 al '32 Filippo resterà nel convento; varie notizie ci informano sulla presenza e la vita di Fra Filippo al Carmine, nonché di un suo viaggio a Pistoia (luglio ‘24) e ancora a Siena e a Prato (agosto ‘26).
Destro ed ingegnoso nelle azioni di mano
Nel convento Filippo studia, ma non sembra molto
versato nell'apprendimento delle lettere, rivelandosi invece "destro ed ingegnoso nelle azioni di mano". "In cambio di studiare - ricorda il Vasari - non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degli altri; onde il priore si risolvette a dargli ogni comodità ed agio d'imparare a dipignere".
Gli esempi su cui il ragazzo si forma, nella Firenze del 1417-'23, sono i maestri tardo gotici ma anche, e soprattutto, le novità di Donatello, Luca della Robbia, Brunelleschi: nel suo linguaggio entrano elementi quali la prospettiva, che inquadra cosa e persone nello spazio, la plasticità corposa delle figure, l'ispirazione a modelli classici.

Felice Brancacci
Il caso vuole che dal 1422, grazie al testamento del ricco mercante Felice Brancacci, la chiesa di Santa Maria del Carmine diventi lo scenario di un evento dirompente per la storia della pittura italiana. Il Brancacci fa costruire per la sua famiglia una cappella la cui decorazione viene affidata, nel 1424, a Masolino da Panicale. Questi porta con sé nell'impresa il giovane Masaccio, cinque anni più vecchio di Filippo (1401-1428, lo chiamavano così perché era sempre sporco), uno dei massimi geni dell'arte del Rinascimento.
Nel cantiere della Cappella Brancacci si riversa, ammirata, tutta la città, mentre Fra Filippo vede nascere sotto i suoi occhi un capolavoro che parla un lingua nuova e modernissima: "Ogni giorno per suo diporto la frequentava, e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di molti giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga gli altri avanzava di destrezza e di sapere..."
La tradizione vasariana vuole dunque che Fra Filippo abbia imparato l'arte davanti agli affreschi di Masaccio, e che poi ne abbia riprodotto i moduli in una serie di opere dipinte nel convento e nella chiesa del Carmine, oggi tutte perdute tranne una (la cosiddetta Conferma della Regola Carmelitana - a lato - affrescata nel chiostro entro il 1431) a causa del terribile incendio che nel 1771 danneggiò gravemente il complesso. "E così ogni giorno facendo meglio, aveva preso la mano di Masaccio si che le cose sue in modo simili a quelle faceva, che molti dicevano lo spirito di Masaccio essere entrato nel corpo di Fra Filippo".

Nel 1430 Filippo è presente nelle annotazioni del convento qualificato – per la prima volta –come "dipintore" (Poggi, 1936), mentre nel 1431 il Lippi figura iscritto alla Compagnia di Santa Maria alle Laudi, alla quale era affiliato Masolino (Caioli, 1958). E' probabile che abbia abbandonato il convento entro il 1432, ma i successivi documenti che lo ricordano con certezza sono del 1434 quando, il 1° di luglio, riceve 11 once di oltremarino per dipingere il Tabernacolo delle Reliquie nella Basilica del Santo a Padova (Guidaldi, 1928). Varie fonti (il Filarete, l'Anonimo Morelliano, il Vasari) ricordano una serie di opere dipinte nella Basilica del Santo, come "Una Coronazione della Nostra Donna a fresco" e un intervento nella decorazione della cappella del Podestà, ma tutta la sua attività di questo periodo è andata perduta.

Il ratto del Lippi
In questi anni si colloca anche un episodio curioso raccontato dal Vasari e dal novellista Matteo Bandello (che diceva averlo saputo da Leonardo da Vinci) ma di cui non esistono prove: trovandosi nella Marca d'Ancona ed uscito a pesca in barca con alcuni amici, il Lippi sarebbe stato catturato dai pirati saraceni e tenuto schiavo per diciotto mesi, finché la sua bravura nel dipingere un ritratto del suo padrone non gli avrebbe fatto riguadagnare la libertà.
Dopo l’esperienza saraceno-padovana, ritroviamo con certezza Fra Filippo a Firenze nel 1437 quando, l'8 di marzo, un certo Jacopo di Filippo orafo si fa garante per lui su un anticipo di 40 fiorini per la pittura della Pala dell'altare Barbadori nella chiesa di Santo Spirito a Firenze (oggi al Louvre).


Datata 1437-8 la pala è già il frutto di uno stile maturo dove si ritrovano tutte le caratteristiche del Lippi: la capacità di reinventare un modello iconografico tradizionale, il movimento e la caratterizzazione somatica dei personaggi, l'inserimento della scena in un recinto architettonico aperto verso l'esterno (qui un cielo azzurro e un paesaggio collinare), l'uso di formule derivate dalla statuaria classica per realizzare figure di grande evidenza plastica. Tornano le caratteristiche marmorizzazioni lippesche e lo schema coloristico basato sulle alternanze cromatiche, con i toni caldi concentrati nel primo piano, al centro della scena, e i toni freddi a suggerire la profondità spaziale. La predella con tre scene è agli Uffizi: San Frediano devia il corso del Serchio; Annunciazione della morte della Vergine e arrivo degli Apostoli; Apparizione dello Spirito Santo a Sant'Agostino .



1437 è anche la data segnata nel cartellino ai piedi della Madonna di Tarquinia, eseguita per il cardinale Vitelleschi, arcivescovo di Firenze dal 1435 al '37, uno dei primi punti fermi del catalogo lippesco. La tavola si avvicina per la potenza plastica delle figure (in particolare il Bambino) alle cantorie di Donatello e Luca Della Robbia (in particolare alle Cantorie del Duomo di Firenze, concluse verso il 1438), a cui si aggiungono un naturalismo ottico alla fiamminga nell'impaginazione prospettica dello spazio e un uso particolare della luce che fa del volto della Vergine il centro focale dell'immagine. Il rispetto della tradizione, che sempre il Lippi unisce alle sue ardite innovazioni, è qui rappresentato dalla raffinata cornice tardo-gotica.


La fama del pittore è nel frattempo arrivata ai massimi livelli. Il 1° aprile del 1438 Domenico Veneziano scrive una lettera da Perugia a Piero di Cosimo de' Medici, per chiedere lavoro (si tratta di una pala d'altare che Cosimo vorrebbe far dipingere) assicurando di poter mostrare la sua abilità, non inferiore a quella del Lippi (che è "bon maestro") e dell'Angelico.

L'anno successivo, il 13 agosto 1439, è lo stesso Lippi a scrivere a Piero de' Medici, cercando affannosamente di ottenere denaro o cibarie in cambio di una sua tavola ancora incompiuta, e affermando di essere "uno de' più poveri frati che sia in Firenze", con sei nipoti fanciulle da marito, inferme e incapaci di lavorare. Il bisogno continuo di denaro, la lentezza nel consegnare le opere commissionate e una certa propensione per le donne e la vita sregolata saranno un leitmotiv nella vita di Fra Filippo, facendone, al contrario dell'Angelico, un personaggio molto discusso. Già dal '39, ad esempio, è probabile che non abitasse più nel convento del Carmine ma avesse casa per conto suo. Come pittore, però, è stimatissimo, e le sue opere vengono richieste da famiglie di alto livello come i Martelli, legati ai Medici: per loro, che detengono il patronato della Cappella degli Operai in San Lorenzo, dipinge verso il 1440-42 una Annunciazione che passa attraverso il modello della 'Annunciazione Cavalcanti' di Donatello in Santa Croce e che dimostra come la cultura figurativa dell'artista non si sia fermata agli esempi della pittura ma sia stata molto sensibile anche alle novità proposte dalla scultura.




Fra il 1439 e il '47 realizza una altro capolavoro, la cosiddetta Incoronazione Maringhi degli Uffizi, commissionata dal canonico Francesco Maringhi per l'altar maggiore di Sant'Ambrogio. La grande pala diventa subito uno dei dipinti più ammirati della città, come attestano i molti disegni che gli artisti del tempo hanno tratto da ogni singola parte della vasta e ricchissima composizione.

Lippi costruisce qui uno scenografico affollamento di personaggi (angeli, santi, personaggi biblici...) in atteggiamenti vari e informali e dai volti realistici come ritratti: impresa assolutamente nuova per quel tempo. Insolito anche il fondo a strisce azzurre. Un autoritratto del Lippi è indicato nel monaco in basso a sinistra, nascosto dal Sant'Antonio Abate in primo piano (particolare a fianco). Per questa tavola Fra Filippo sarà pagato, compresi i materiali, ben 1.200 fiorini. Accanto a lui, i documenti citano almeno tre aiutanti fra cui il giovane Fra Diamante, poi suo strettissimo e fraterno collaboratore per il resto della vita.

Nel frattempo, risulta che Fra Filippo abbia dipinto la cassa per le esequie di Sant'Andrea Corsini (1440), lavorato per il convento delle Murate (1443, 'Annunciazione' della Alte Pinakotek di Monaco) e per la Cancelleria del Palazzo dei Signori (alias Palazzo Vecchio, pagamento del 16 maggio 1447: il documento è citato da Filippo Baldinucci ma oggi è perduto). Ai lavori eseguiti per Palazzo Vecchio appartiene quasi certamente la Apparizione della Vergine a San Bernardo oggi alla National Gallery di Londra, che nella forma anomala denuncia la sua destinazione a sovrapporta.
Nel frattempo il Lippi, con bolla del 23 febbraio 1442, era stato nominato da papa Eugenio IV Rettore e Abate Commendatario a vita della chiesa di San Quirico a Legnaia, presso Firenze, e subito investito del beneficio. Addetto alla stessa chiesa risulta (da una nota del 1447) anche il fratello Giovanni. Il beneficio non avrebbe però risolto i continui problemi economici del frate, come dimostra un episodio avvenuto nel 1450.

"Qui plurima et nefanda sclera perpetravit” (per una firmetta)
Alla fine di questo anno Fra Filippo avrebbe dovuto versare a Giovanni di Francesco del Cervelliera, pittore, una cifra di 40 fiorini per le sue prestazioni di aiuto e discepolo nella bottega. Non avendo onorato l'impegno ed essendo per questo chiamato in giudizio, il Lippi esibì una ricevuta di versamento della cifra pattuita falsificando la firma dell'allievo. La lite finì davanti al Vicario arcivescovile di Firenze il quale, stante le recise affermazioni contrastanti dei due, li mise in carcere entrambi e li interrogò sotto tortura. Il Lippi, in seguito alla fuoriuscita di un'ernia, confessò la sua falsificazione e fu scarcerato, ma la vicenda non sarebbe più stata dimenticata nell'ambiente ecclesiastico fiorentino tanto che, il 19 maggio 1455, la rettorìa di San Quirico a Legnaia gli sarebbe stata formalmente revocata, sia per la condanna di cinque anni prima sia "perchè poco sollecito dei suoi doveri".

Trascorre un solo anno e il frate è di nuovo nei guai: l'11 settembre 1451 viene sottoposto a un secondo processo, questa volta per aver fatto eseguire alla propria bottega una tavola che il committente, Antonio del Branca di Perugia, aveva espressamente richiesto fosse dipinta da lui personalmente. Stavolta il giudizio - del laico Tribunale di Mercatanzia - deve essergli stato favorevole, perché il prezzo di 70 fiorini gli viene saldato.

Prato, "la più eccellente di tutte le cose sue" (Vasari)
Nel 1452, mentre a Firenze viene inaugurata la terza Porta del Battistero, quella del 'Paradiso', a Prato ed Arezzo prendono il via due imprese pittoriche di grande rilievo, emblematiche dei livelli più alti raggiunti dalla pittura: gli affreschi di Filippo Lippi per il Coro di Santo Stefano a Prato (1452-65) e quelli dovuti a Piero della Francesca nell'abside della chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452-62). La lunga avventura della decorazione del Coro della Pieve di Santo Stefano a Prato occuperà Lippi fino al 1465.

Stanziata per gli affreschi e la vetrata la somma di 1.200 fiorini e ricevuto nel marzo del '52 il rifiuto del Beato Angelico, il Comune di Prato decide di affidare il prestigioso incarico a Fra Filippo, che subito accetta e si reca a Prato: il suo nome compare nei documenti fino dal 6 di maggio. Pur di averlo, gli Operai di Santo Stefano si impegnano (8 agosto) a pagare una penale di 22 fiorini a Leonardo Bartolini, che ha commissionato al Lippi un Tondo con Storie della Vergine e teme che il pittore non riuscirà più a terminarlo per la data convenuta (8 dicembre). Il pittore evidentemente non fece onore al suo impegno e Bartolini (16 aprile ’53) riceve i fiorini pattuiti.

Il dipinto costituisce uno dei primi e più grandi esemplari di tondo rinascimentale, fonte di ispirazione per lo stesso Botticelli, ed è realizzato con una impaginazione innovativa. Per la prima volta il Bambino sta seduto sul grembo della Madre mentre, nel secondo piano, alcuni episodi richiamano la storia della nascita della Vergina e illustrano un tema molto in voga nel Quattrocento: il concepimento 'macolato ' o 'immacolato' di Maria (Ruda, 1993). La costruzione geometrica è rigorosamente aderente alla prospettiva lineare, come in Piero della Francesca e nel Mantegna, ma questa razionalità è come nascosta e i modelli della composizione, molto scenografica e volta a drammatizzare la rappresentazione, sembrano venire ancora una volta dalla scultura (il Ghiberti della Porta del Paradiso).

A pezzi e bocconi
Il 13 Luglio ‘53 Lippi è di nuovo in causa, con tale Lorenzo Manetti, che lo accusava di aver preteso troppo e in anticipo per la sua tavola, rischiando addirittura la scomunica. Nel frattempo la decorazione della Cappella Maggiore di Santo Stefano, molto impegnativa, prosegue a singhiozzi. Si svolgerà nell'arco di tredici anni fra interruzioni, richieste di denaro, solleciti per la conclusione dei lavori, fughe del pittore, verifiche e rinegoziazioni del contratto. (prossimo post) Intanto il frate avrà modo di dipingere molte altre opere, specie nei mesi invernali, quando il freddo avrebbe comunque reso impossibile lavorare sui ponteggi di Santo Stefano.

Fra le altre, eseguirà per l'Opera Pia fondata da Francesco Datini la tavola con la cosiddetta Madonna del Ceppo (pagamento finale 8 maggio 1453), le monumentali Esequie di San Gerolamo (vedi articolo precedente) per il preposto Geminiano Inghirami, il complesso Tondo Cook di Washington con la 'Adorazione dei Magi', una delle più elaborate versioni mai eseguite dell'Adorazione dei Magi, un vero sermone dipinto che illustra la più varia pluralità di temi epifanici.




Si tratta di uno dei primi tondi pervenutici concepiti come opera d'arte autonoma e non come desco da parto o vassoio decorativo. Lo si accosta ad un'opera analoga di Domenico Veneziano, anch'essa raffigurante un'Adorazione dei Magi, e si pensa per entrambi a una committenza medicea. L'occasione potrebbe essere la nascita di Lorenzo il Magnifico (1449) ma ogni tentivo di ricostruzione è ipotetico: l'unica certezza è che un tondo analogo è menzionato nella camera di Lorenzo nell'inventario del 1492, dove lo si stima l'alta cifra di 100 fiorini e lo si assegna al Beato Angelico. La critica moderna ha continuato comunque a dibattere sui nomi di Filippo e dell'Angelico, ipotizzando una collaborazione fra i due o l'intervento, accanto a Filippo, di un allievo dell'Angelico

Ancora al periodo "pratese" risalgono la Pala per Alfonso d'Aragona commissionata da Giovanni de' Medici (assenso all'esecuzione da parte del Comune di Prato il 12 maggio 1456), le quattro vele della volta sopra la tomba di Geminiano Inghirami nella chiesa di San Francesco (dal febbraio 1460, affreschi perduti), la 'Adorazione di Camaldoli' per la cella della famiglia Medici all'interno dell'Eremo e la famosa 'Lippina', cioé la straordinaria Madonna col Bambino e Angeli oggi agli Uffizi che darà il via ad una lunga serie di 'Madonne col Bambino', replicate per i secoli a venire.


E' forse il dipinto più famoso di Fra Filippo, celebrato in ogni secolo, modello iconografico per tutte le Madonne successive comprese quelle del Botticelli. Sono ignote l'origine e la destinazione di questa tavola soprannominata la "Lippina", insolitamente grande per il soggetto, straordinariamente innovativa nella composizione e anticipatrice nell'uso del colore. L'inquadramento della scena in un paesaggio a volo d'uccello è ispirato alla pittura fiamminga ma le fonti iconografiche del gruppo sacro portano ancora una volta allascultura: a Agostino di Duccio e Desiderio da Settignano (Grassi, 1957), a Luca Della Robbia (Del Bravo, 1973) e a Donatello (Ruda, 1993), ma anche agli esemplari romani e a Michelozzo (tomba Aragazzi a Montepulciano). I colori puri della tradizione vengono qui abbandonati e il risultato è un effetto di unità atmosferica che solo Leonardo, più tardi, tornerà a perseguire. Nell'insieme, un effetto naturalistico che dovette sembrare straordinario ai contemporanei. L'importanza del dipinto è testimoniata anche dal fatto che è una delle poche opere del Lippi integralmente autografa.

Il volto è quello, bellissimo, di Lucreza Buti, monaca nel convento pratese di Santa Margherita di cui Fra Filippo è stato nominato cappellano all'inizio del 1456.

Lucrezia Buti
Fra Filippo, molto sensibile al fascino femminile e altresì noto donnaiolo, ne rimase folgorato e se ne innamorò, anche se ormai cinquantenne, a prima vista. Filippo riuscì a convincere convincere le monache a lasciarla posare per la tavola che stava dipingendo per il loro altare. La Pala, oggi al Museo Civico di Prato, rappresenta 'La Madonna che dà la Cintola a San Tommaso tra i Santi Gregorio e Agostino, Tobiolo con l'Angelo e Santa Margherita' che presenta alla Vergine la committente, suor Bartolommea dei Bovacchiesi, all'epoca badessa del Convento. E' probabile che il profilo della Santa Margherita, tanto ammirato da Gabriele D'Annunzio, sia proprio quello di Lucrezia.


Dopo averla fatta posare per i suoi dipinti, Filippo la convince a fuggire dal convento e la porta a vivere nella casa acquistata nel maggio del 1455 dall'Opera del Cingolo. La vicenda amorosa, che tanto scalpore avrebbe provocato nei contemporanei, è ricordata dallo stesso Vasari: "E con questa occasione (del dipinto) innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache, e la menò via il giorno appunto ch'ella andava a veder mostrare la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello". Lucrezia cioé sarebbe uscita dal convento per assistere, in mezzo alla folla, ad una delle periodiche ostensioni della Sacra Cintola e i due avrebbero approfittato dell'occasione per andare a vivere insieme nella casa di lui.

Era il 1457; le cronache raccontano poi che anche la sorella Spinetta e altre tre suore avrebbero lasciato il Convento per trasferirsi nella casa del Lippi (dove “tenevano colpevoli pratiche con uomini” afferma il Cavalcaselle), ma antichi documenti affermano che poi tornarono nel monastero come novizie e ripresero i voti in seguito al grande scandalo suscitato, alla vergogna caduta sulle innocenti consorelle e alle pressioni dei familiari e della Curia. Fu una lettera anonima ad annunciare che Lucrezia aveva avuto un figlio (Filippino) e ci volle l’intervento di Cosimo de’ Medici per placare lo scandalo. Il Medici ottenne da Pio II che il frate e la monaca fossero sciolti dai voti in modo da potersi così liberamente unire in matrimonio. Cosa che, per la verità, non risulta essere avvenuta, dato che Filippo non sposò mai Lucrezia (“non si volle a nodo matrimoniale legare, amando troppo la libertà”) forse, come dice con una punta di cattiveria il Vasari, "per potere far di sé e dell'appetito suo come gli paresse". Il Lippi e Lucrezia ebbero poi un’altra figlia, Alessandra, nel 1465.

I collaboratori
Di continuo chiede acconti sui lavori che ha fra mano e sempre nuovi ne assume trascinandoli poi tutti in lungo, come emblematicamente dimostra la vicenda degli affreschi di Prato, per i quali s’era scelto un collaboratore, fra Diamante, d’analogo stampo o divenuto tale per contagio, se risulta imprigionato nel 1464 su accusa dei suoi stessi confratelli carmelitani, il cui ordine aveva lasciato da qualche anno per abbracciare quello dei serviti forse proprio per sottrarsi alle sue malefatte” (Marchini).

Oltre a Diamante tra i vari assistenti, allievi e portaborse della bottega di Filippo lippi, il nome più famoso è quello di Sandro Filipepi detto il Botticelli (1445-1510) che, entrato nella bottega del Lippi verso il 1464, quando trovava finalmente compimento il Ciclo pratese, se ne sarebbe allontanato presto, fondando già nel 1470 una propria bottega in Firenze. Da questa esperienza, certo chiusa prima del viaggio del Lippi a Spoleto nel 1467, il Botticelli avrebbe comunque portato con sé certe caratteristiche come la stesura compatta del colore, l'ampiezza delle forme (non lontane dalla scultura di Luca della Robbia) e quel fare gentile che trova la massima espressione nei volti dolcissimi delle sue Madonne.

Filippo e Diamante dovevano comunque essere persone esuberanti e affascinanti, o i pratesi particolarmente facili da gabbare, perché sebbene “non rispettò gi impegni con le sue lungaggini, fu sempre assillante nel chiedere denaro, fu sospettato di averne avuto troppo, eppure uscì dall’impresa col benservito, dopo aver ricevuto una somma enorme per quei tempi, quasi tre volte maggiore del normale, con stima e gratitudine tali da volergli offrire ancora incarichi di fiducia come la decorazione della lunetta del portale maggiore delle stesso duomo”.


Il cantiere di Spoleto
Partito da Prato, nel 1466 Filippo è già al lavoro nel cantiere di Spoleto. L'Opera del Duomo di quella città lo incarica di affrescare con Storie della Vergine la Tribuna della Cattedrale e già l'8 febbraio del '66 il pittore riceve denaro per pagare oro e azzurro; il 2 luglio però non è ancora al lavoro e l'Opera paga 50 fiorini per portarlo a Spoleto. Il 1° ottobre vengono spesi altri 50 ducati ma invano; in novembre e dicembre lo si cerca a Firenze e Prato ma senza trovarlo.

Come già gli affreschi di Prato, anche l'impresa spoletina è destinata a subire ritardi causati dalla discontinuità del pittore che, sempre bisognoso di soldi, continua a tenersi impegnato con la committenza pratese e pistoiese. Il 18 maggio del 1467 consegna infatti un Paliotto alla Compagnia dei Preti della Trinità di Pistoia. Ad aprile, comunque, il Lippi ha preso a Spoleto una casa con orto e il 13 maggio si ha la prima menzione del figlio Filippino per la spesa di un paio di calze: il padre evidentemente lo ha portato con sé come apprendista. Nello stesso mese si alzano in Duomo i primi ponteggi anche se l'inizio dei lavori, con il solito Fra Diamante sempre come collaboratore principale, sembra sia avvenuto solo nel settembre 1467. Siamo al 1468, Lippi riceve il pagamento per la Circoncisione dello Spirito Santo di Prato - dietro all'ospedale -(e pare che usi il denaro per comprare un'altra casa a Prato).

Ad aprile si ammala e deve tornare nuovamente in Toscana. A novembre si registra lo spostamento dei ponteggi nell'abside di Spoleto: finita la grande 'Incoronazione della Vergine' nel catino si scende alle pareti per affrescare le tre 'Storie'; ma il 2 dicembre il pittore è di nuovo malato e sembra aver ricevuto la visita di Antonio Pollaiolo (forse insieme al fratello Piero). Dal luglio 1469 i pagamenti per gli affreschi di Spoleto riportano anche il nome di Filippino, ormai dodicenne, mentre ad agosto si registra l'acquisto di abiti per il garzone Piermatteo d'Amelia e a settembre - rispettivamente il 10 e il 30 del mese - Filippo compra colori e vino. La ripresa è di breve durata: fra l'8 e il 10 di ottobre Filippo muore. Viene sepolto nel Duomo di Spoleto, di fronte alla porta maggiore. In seguito, per interessamento di Lorenzo il Magnifico, il figlio Filippino disegnerà il sepolcro di marmo con il busto a rilievo e un epitaffio dettato da Agnolo Poliziano. Gli affreschi della Tribuna saranno conclusi il 23 dicembre, con un costo complessivo di 700 ducati, dei quali 511 per Filippo, 137 a Fra Diamante e 48 versati in più volte a Filippino dopo la morte del padre.
"Fu fra Filippo molto amico delle persone allegre e sempre lietamente visse - scriverà di lui il Vasari - Delle fatiche sue visse onoratamente e straordinariamente spese nelle cose d'amore, delle quali del continuo, mentre che visse, fino alla morte si dilettò". E così, per chiudere ancora con Vasari “molte cose che di biasimo erano nella vita sua, furono ricoperte mediante il grado di tantà virtù”.

FINE




Il post è un mio collage di informazioni dalle seguenti fonti:

- il sito del restauro di filippo lippi, molto interessante, anche per gli itinerari proposti a Prato.
- il libro di Marchini, Giuseppe: Filippo Lippi, Electa editrice, milano 1975
- il fascicolo di Trame d'arte del Aprile-Maggio 2007, interamente dedicato a Lippi

Domanda: chi viene il 28 alla visita guidata?

venerdì 11 settembre 2009

Fra Filippo (in attesa di un articolo più esaustivo)

Museo dell'opera del Duomo: al museo rientra dopo un lungo restauro, curato dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, l'importante pala di Lippi "Esequie di San Girolamo" (1455). La pala è stata dipinta intorno al 1455 su commissione del colto Geminiano Inghirami, proposto della Pieve di Santo Stefano, attuale Cattedrale. Molto lodata dal Vasari nella Vita dell'artista, è uno splendido esempio della capacità del Lippi di saper "espimer gli affetti nelle pitture".


Grande pala d'altare dove è raffigurato il Preposto di Prato Geminiano Inghirami, vivace personalità di mecenate e committente degli affreschi della Cappella Maggiore di Santo Stefano. Il prelato appare raffigurato in primo piano, inginocchiato davanti al catafalco di San Gerolamo che occupa il centro della scena, effigiato di profilo come in una medaglia antica. La preziosa stoffa intessuta a melograni che copre il catafalco fa da sfondo alla testa e sarà ripresa nella tomba del prelato in San Francesco realizzata da Desiderio da Settignano (1460). La notazione realistica dello storpio in primo piano è una citazione dallo storpio di Masaccio nella scena di 'San Pietro' della Cappella Brancacci.



(Masaccio, San Pietro risana gli infermi, Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine)





Infermo 1, particolare ; Infermo 2, particolare.

Nella parte superiore della tavola del Lippi, affollata di schiere angeliche, la critica riconosce l'intervento di Fra Diamante, oppure di un anonimo collaboratore che si rifà a modelli fiorentini del Ghirlandaio. La data 1440 riportata sull'opera è sempre stata ritenuta falsa, mentre è accolta una esecuzione fra il 1450 e il '60, anno della morte del prelato. In basso è lo stemma della famiglia Inghirami.


Nei giorni di sabato 26 e domenica 27 settembre, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio in collaborazione con il Comune di Prato, il museo offre l'ingresso gratuito e la possibilità di usufruire di una visita guidata su prenotazione al costo ridotto di € 2,00 a persona fino ad un massimo di 30 persone per gruppo per ciascuna delle tre visite previste (sabato ore 10.30 e ore 16.00 / domenica ore 10.30).
-Chi viene?