sabato 28 febbraio 2009

La Prima Pagina, specchio dell'anima del quotidiano.

Newseum

E' il sito del Newseum, il Museo del Giornalismo di Washington.
Sono presenti giornalmente più di 700 prime pagine da decine di paesi di tutto il mondo e di tutti i continenti anche se viene data grande rilevanza a Usa e Europa, forse inevitabilmente.
Sono tutte stampabili e leggibili in Pdf; sfortunatamente però l'archiviazione non avviene giorno per giorno ma solo in occasione di particolari avvenimenti (per esempio gli attacchi terroristici di Londra, New York, Madrid, l' uragano Katrina, l'elezione di Obama).

Una dimostrazione pratica di rassegna stampa internazionale:
12 settembre 2001
In alto a sinistra "Al-Hayat" di Beirut, Libano a destra invece "The New York Times" di New York.
In basso a sinstra "The Dong-a Ilbo" di Seul, Corea del Sud a destra invece "Maariv" di Tel Aviv, Israele






Ora, non fatevi spaventare dalle lingue un pò inintelligibili (etnocentricamente parlando) perchè molti quotidiani asiatici, africani, caraibici o mediorientali sono in inglese e quindi teoricamente comprensibili, altrimenti potete sempre ricorrere al metodo di Vittorio Gassman nel Sorpasso:

Roberto Mariani (Trintignant): "Ma tu conosci il tedesco?"
Bruno Cortona (Gassman): "No, ma me l'immagino"

Ci sono anche i quotidiani italiani, ma sono per la maggior parte locali (come "La Gazzetta di Mantova", "La Tribuna di Treviso" o "Il Mattino di Padova"; insomma ci siamo capiti).
Per visualizzare invece i quotidiani nazionali uno strumento più efficace è:


Funize

dove sono raccolte quotidianamente le prime pagine dei maggiori giornali italiani (tra cui anche "Avvenire" il giornale dei vescovi, "Liberazione e "Libero" e "Il Giornale" di Berlusconi)
Alcune sono leggibili in Pdf, tutte sono votabili e commentabili (c'è una classifica delle 10 prime pagine più votate).
Vengono archiviate giorno per giorno e quelle vecchie sono facilmente ricercabili e consultabili.

E' presente anche "Il Manifesto" la cui prima pagina è sempre imprescindibile come potete constatare da un esempio di qualche giorno fa:


Prima pagina del 25 Febbraio 2009 sul vertice bilaterale tra Berlusconi e Sarkozy durante il quale è stata siglata un' alleanza tra Italia e Francia, guidata dalle controllate Eni e Edf, per la costruzione di 4 centrali nucleari in Italia.

La cosa interessante è che potete farvi una vostra rassegna stampa personale, per analizzare, per esempio, come uno stesso avvenimento viene affrontato dalle diverse testate, quanto peso gli viene dato e come molte volte le prime pagine siano simili o identiche come riscontrabile dall'esempio sottostante:



"La Repubblica" e "Il Corriere della Sera" del 27 Febbraio 2009.
Come potete notare il titolo è identico e non varia nemmeno di una virgola.




Qualcuno ha qualcosa in contrario se metto entrambi i siti nei link?

martedì 24 febbraio 2009

Furto di viagra, si cerca un nano.

Credo che non ci sia nient'altro da aggiungere, a parte forse l'assedio dei topi.

Scattata a Firenze il 24 Febbraio 2009.

lunedì 23 febbraio 2009

Sopraccieli

Calendario della Provincia di Prato 2009

GENNAIO
Palazzo Banci Buonamici - Salone del Gonfalone - Prato

FEBBRAIO
Villa Medicea - Salone Leone X - Poggio a Caiano

MARZO
Convento di S.Domenico - Sala del Capitolo

APRILE
Oratorio di S.Niccolò - S.Quirico di Vernio

MAGGIO (Per la gioia di voi roncioniani)
Biblioteca Roncioniana - Sala di Lettura

GIUGNO
Pieve di S.Giovanni Battista Decollato - Montemurlo

LUGLIO
Monastero di S.Niccolò - Sala del Capitolo - Prato

AGOSTO
Tumulo etrusco di Montefortini - Camera sepolcrale - Comeana

SETTEMBRE
Badia di S.Salvatore - Ciborio e Presbiterio - Vaiano

OTTOBRE
Teatro Politeama

NOVEMBRE
Chiesa di S.Biagio e Oratorio della Compagnia - Cantagallo

DICEMBRE
Basilica di S.Maria delle Carceri


Riprese fotografiche: Franco Zampetti.
Tutti i diritti riservati.

sabato 21 febbraio 2009

Nelle fumanti chicchere


"Nelle fumanti chicchere
La verso a poco a poco,
E fommi un caro gioco
D’avvolger il liquor,ch’anco rimane,
E aggiugnerlo alla tazza infin, ch’è piena:
Tre o quattro volte appena
Rifò l’opra gradita, Che già la tazza empita,
Sale la dilettosa
Bevanda all’orlo intorno alta e spumosa.
Anela il labbro mio
Di lamir quell’ambrosia, e lento succhia
La chicchera fumante”


Ebbene sì, prima del Millecinquecento i bambini europei non ebbero ancora mai in sorte di assaggiare la cioccolata – perché nessuno sapeva che cosa fosse.
Certo, a quel tempo nessuno (a parte Marco Polo – che lo scambiò per un unicorno) aveva neanche mai visto un rinoceronte, e la stessa cosa vale per i pomodori (nascosti in Perù e riportati da Cortès), ma per quanto riguarda la cioccolata c’è qualcosa di differente.
Provate ad immaginare la vostra infanzia senza uova Kinder, uova di Pasqua, senza torte e Sachertorte, senza “Fabbrica di Cioccolato”, senza il gelato al cioccolato (anche se di Pupo forse si poteva fare anche a meno). A me pare una brutta cosa.
Ora cercate di immedesimarvi nel carattere di un uomo cresciuto in una epoca inconsapevolmente astemia di cacao, come quella medievale ad esempio. Sembra dover trattarsi per forza un bruto, un aspro, irsuto nell’anima...
E se estendessimo la manchevolezza ad un’ intera società priva della sostanza?
Queste le prime domande sollevate dalle mie recenti scoperte in ambito di storia del cacao, su cui qui lascio qualche appunto.


Affermazione del “cioccolatte” e sovrastruttura.

Dunque, la cioccolata, anche sembra strano, prima non c’era (e tra l’altro viene da chiedersi: ma allora cosa facevano gli svizzeri prima del 1500?). Diffuso dagli spagnoli fin dal Cinquecento, il “cioccolatte” arrivò in Italia solo nei primi decenni del nuovo secolo, diventando ben presto una passione irresistibile per nobili, prelati ed uomini di cultura. Almeno dapprima quindi, non un affare per bambini.
Se, come diceva Feuerbach, “l'uomo è quello che mangia”, nel Cinquecento e nel Seicento, almeno da un punto di vista sociale, ciò era pacifico: ad ogni ceto spettavano, di diritto e per natura, determinati cibi e non altri.
Il cibo è sempre stato in tutte le civiltà spia e codice di identificazione del suo consumatore: e non poteva che essere così in un mondo, come quello medievale ma anche quello del Seicento, percorso in modo drammatico dalla fame, dalla sottoalimentazione generalizzata e dalle carestie. Dunque era ovvio che i cibi vili toccassero ai contadini ed ai poveri, mentre l’aristocrazia pasteggiasse con i cibi più preziosi e ricercati, compresa, di diritto, l’esotica chocolatl, che Maya ed Atzechi bevevano amara, considerandola una bevanda raffinata e di lusso.” (Il cacao inoltre veniva utilizzato da questi come valuta di scambio, proprio come da noi si usava il sale, il che, detto di passaggio, riabilita completamente i soldi di cioccolato in involucro dorato che mangiavate da bambini, che in epoca Azteca avrebbero avuto un ben preciso valore nominale)


Così presto la moda della cioccolata e delle altre bevande importate dall’Asia e dalle Americhe si diffuse e arrivò ad influenzare l’immaginario collettivo (e le pratiche alimentari) delle classi nobiliari italiane, delineando i contorni di una nuova cultura del cibo e del bere esotico, che si sposava in pieno con l’ideologia barocca.
Ce lo testimonia la terza edizione del Vocabolario della Crusca, datata 1691, in cui si registra, a dire il vero un po’ in ritardo, l’ingresso nell’uso comune di termini quali cacao, caffè, cioccolata, chicchera.


Il panorama Fiorentino e l’ "identità toscana".

A Firenze i Medici, grazie ai loro “agganci” Spagnoli, furono una delle case regnanti più impegnate nella diffusione e nella celebrazione del “cioccolatte”, rapidamente divenuto un fenomeno di costume.
A Fiorenza esso non solo veniva consumato, ma anche prodotto, nella Spezieria granducale di Boboli, da un gruppo di “odoristi” toscani, tra cui il medico di corte e letterato aretino Francesco Redi e il suo amico letterato “profumiere” Megalotti.
Nel melting pot di Boboli, Redi e il Granduca Cosimo III si impegnavano a sperimentare nuovi tipi di cioccolata, non solo mescolando le varietà di cacao che arrivavano in città per i canali più diversi, ma anche introducendo altri, raffinatissimi (e segretissimi) ingredienti.
Sì perché il significato della produzione marchiata Medici oltrepassava il semplice interesse per la raffinatezza organolettica, assumendo veri e propri connotati politico-cultural-identitari: attraverso la diffusione di precise modalità di preparazione e di degustazione del “nettare messicano” la nobiltà fiorentina intendeva proporre e rivendicare di fronte alle altre, più celebrate e potenti nazioni d’Europa, una precisa identità ‘toscana’, fatta di lusso e di raffinata ‘gentilezza’.
La cioccolata a Firenze non era così solo questione di botteghe o di salotti: era il Granduca stesso che la voleva “fabbricare”, e di un tipo del tutto speciale (anche se poi poteva gustarla solo in dosi ristrette, causa disposizioni del suo archiatra-cuoco aretino – Redi – contro la sua pinguedine ipocondriaca), per gareggiare con i monarchi spagnoli, monopolizzatori dei palati delle Corti europee, in cui circolava una cioccolata preparata secondo la “ricetta del Re di Spagna”. Il Granduca di Toscana voleva fare altrettanto, se non addirittura meglio.
A ciò era preposto il pezzo forte della produzione cioccolatiera fiorentina: la cioccolata al gelsomino, che, a detta degli intenditori, sprigionava aromi e fragranze di delicatezza inimmaginabile.
Di essa scriveva Redi:

“Alla perfezione spagnuola è stato a’ nostri tempi nella Corte di Toscana aggiunto un non so che di più squisita gentilezza, che […] fa un sentire stupendo a coloro che del cioccolatte si dilettano.”

La nuova ricetta della cioccolata all’odore di gelsomino made in Boboli finì così per diventare un affar di stato. Segretissimo, caricato di un valore simbolico-politico, il recipe era blindato a tal punto che oggi affiora solo sottoforma di qualche accenno (e annessa reticenza) nelle lettere di Redi, unico assieme al Megalotti ed a una ristretta cerchia di specialisti “profumieri” a conoscerne le procedure lavorative. Si capisce perciò come anche la degustazione di questa speciale cioccolata poté finire per assumere il carattere di un vero e proprio status symbol che delimitava un circuito ristretto di persone privilegiate gravitanti attorno al Granduca e al rutilante mondo della Corte.
Della ricetta segreta si avrà testimonianza scritta solo nel 1712, quando, cent’anni dopo, oramai nel secolo dei Lumi, essa appare in una nota all’epistolario rediano redatta da un amico (Vallisneri) di un amico (Cestoni) di Redi.


La panacea messicana

Poiché “la gola de moderni”, come scriveva il medico-scienziato-letterato Redi, non aveva limiti, il “cioccolatte”, a causa del suo successo e della sua ampia diffusione, con le annesse implicazioni sociali, divenne presto affar serio.
La discussione su “virtù e vizi” della cioccolata coinvolse in profondità sia il mondo laico che quello religioso, producendo una radicale spaccatura tra “cioccolatieri” e “anticioccolatisti”: tra chi esaltava il “nettare messicano” come un “elisir”, una “panacea”, se non addirittura una “bevanda angelica” foriera di integrazione sociale, e chi invece la definiva un “liquore diabolico” che alimentava il “fuoco della libidine”; tra chi rivendicava nella degustazione di una tazza di cioccolata un gesto simbolico che delimitava un circuito ristretto di persone privilegiate, e chi al contrario ne denunciava il carattere subdolo di una minaccia per le fondamenta stesse del costume e della società cristiana.


Consigli per un’ottima degustazione

La cioccolata, nella Firenze del ‘600, la si trovava sottoforma di “buccheri” (pastiglie da masticare o da bruciare per profumare gli ambienti), “pastiglie” e “morcelletti” o bocconcini.
Il cacao si vendeva in “cilindri rotondi” “tavolette quadrate” “rotelle”, oppure veniva confezionato e trasportato in “bolli”, più comunemente detti “bogli”, cioè tavolette o panetti, come quelli che Redi inviava al Fratello nel 1695: “bogli di cioccolata di gelsomini delle sopraffine”.
Per quanto riguarda la degustazione, per essere à la page nel Seicento, la cioccolata andava assolutamente bevuta “calda, quasi bollente, sorbendola adagio adagio in certe tazzette di maiolica o d’argento, dette all’uso di Spagna chicchere”. Le migliori e preziosissime arrivavano a Firenze direttamente da Madrid.
Alla chicchera poi, come si conviene ad ogni ambiente nobiliare, si aggiungeva un intero arsenale di utensili e pratiche che concorrevano a formare il rito del sorbimento (doppio tovagliolo, tazze di diverse fogge etc. etc.), ovvero “tutto l’attiraglio del cioccolatte”, sontuoso corredo di argenti e porcellane di varie manifatture europee, in particolare quelle di Sèvres e Meissen.


Saperi e sapori

Per il godimento della cioccolata (ma non solo) entravano poi in gioco saperi e tecniche al limite dell’esoterico, riportate a Firenze dal Megalotti, gran viaggiatore e frequentatore dei migliori “profumieri” d’Europa. A lui va attribuita l’introduzione di varie e stravaganti modalità di assaporare bevande e odorare profumi, in puro stile barocco, tra cui ad esempio il nuovo modo di gustare la cioccolata assaporandola nei “giorni ardenti” del solleone ghiacciata nella sorbetteria. Il “superbo cioccolate”, già “terror del crudo inverno”, poté così diventare anche un “vezzo dell’estate”.
(Semmai voleste darvi un tono Barocco dunque, potete mettere i vostri cioccolatini in frigo)


“E’ questa la gradita \ arte di far il balsamo della vita”

Mentre Bruegel dipingeva la novità del rinoceronte (che peraltro non aveva mai visto, perché era affondato nella barca che lo portava dal Portogallo a Roma), a Firenze si cominciò a cantare la squisitezza della cioccolata in versi. I primi tre “orfei del cioccolate” furono il letterato anghiarese Federigo Nomi, il cruscante fiorentino Pier Andrea Forzoni e il gesuita napoletano Tommaso Strozzi. Quest’ultimo così ne scriveva elogiandone ad un tempo le dolci elevatezze organolettiche e le virtù mediche:

“Ed oh! qual brilla/ Sul nero labbro nembo rugiadoso, Qual odoroso/ Fumo le nari mie grato titilla! […] Ed oh! qual gusta allor grato sapore,/ Nuova rugiada ed odoroso fiore!/ A qual gentil palato,/ Qual v’ha più grata ambrosia?/ Qual meglio può lo stomaco/ Sedar, quand’è irritato? “

Le proprietà terapeutiche nel “nettare messicano", balsamo per la vita malferma, che grazie al suo “ambrosio succo” poteva addirittura reintegrare le “perdite della mente logorata”, andavano dunque di pari passo con l’estasi delle papille gustative da esso provocate.


Gli “anticioccolatisti”

La controversia “an chocolates aqua dilutus jeiunium ecclesiasticum frangat” aveva agitato a lungo medici e teologi, prima in Spagna e poi in Italia, già nel corso del Cinquecento.
La spinosa questione su cui verteva il dibattito era la seguente: rompeva o meno la cioccolata il digiuno della Chiesa?
Se si pensa all’atmosfera che si respirava nell’Europa (e nell’ Italia) della Controriforma, (dove, solo per fare un esempio, le ville medicee si erano tutte dotate di laghetto per il pesce fresco, in modo da poter rispettare l’astinenza dalla carne del venerdì), si capisce l’importanza vitale dell’affare.
Se la cioccolata dovesse essere considerata come un alimento, divenne questione di importanza vitale.
Nel 1664 la controversia sembrò essere stata autorevolmente risolta a favore della “opinio negativa” da Francesco Brancaccio il quale, dopo una puntuale analisi degli argomenti pro e contro, aveva concluso che non essendo alimento, una tazza di cioccolata non rompeva il digiuno anche se, di fatto, era nutriente: “licet per accidens nutriret”. Doveva però essere bevuta liquida, non mangiata solida, e la dose non poteva oltrepassare un’oncia di polvere di cacao. Se si seguivano questi dettami, bere cioccolata il venerdì non era peccato.
Nel 1676 tuttavia, proprio mentre “questa quintessenza” si diffondeva arridendo ad alimento simbolico dell’aristocrazia fiorentina, la polemica si riaccese per mano del medico Francesco Felini. Esso era diretto a tutti coloro che non solo bevevano cioccolata ogni giorno, ma anche in periodi di astinenza dal cibo, e pretendevano di legittimare il “vitio di prender la cioccolata in giorno di digiuno”, mettendo così in pericolo non solo il loro corpo, ma anche la loro anima.
Con la sua “Risposta dimostrativa che la cioccolata rompe il digiuno” Felini divenne il portabandiera degli “anticioccolatisti” italiani.
La cioccolata, sosteneva il medico, “profumata d’odori penetranti”, non era affatto adatta a “certe dame” alle quali “per gli odori di questi o per le attioni antipatiche al lor ventre, cagionerebbonsi passioni isteriche”. Essa, con la sua irresistibile “fragranza d’odore”, era solo uno dei piaceri del gusto che la moderna “greggia d’Epicuro” contrabbandava come innocui, ma in verità di trattava di una di quelle bevande che davano l’ebrezza di navigare “in un mar di piacere”, avendo poi come risultato l’ approdo nel “porto del pianto”.
Da un punto di vista scientifico poi, la cioccolata, in virtù della sua natura “oleaginosa e balsamica” non era affatto da considerarsi una “bevanda” né tanto meno un “medicamento”, bensì una “vivanda” vera e propria, tanto più pesante quanto maggiore era la quantità di zucchero impiegata. Essa, dunque, rompeva il digiuno.
A ciò si aggiunga un altro fattore pare altrettanto importante. La proprietà della cioccolata che preoccupava di più il “christiano” cioccolatiere era infatti quella, evidenziata fin dai primi racconti europei sull’uso che delle bevande a base di cacao facevano gli Indiani, di mettere in ebollizione gli spiriti venerei, di alimentare il “fuoco della libidine”, di stuzzicare “gli stimoli della carne”; al punto che, sentenziava il medico, “qualunque si sia il cioccolatiero, vecchio o giovane, huomo o donna”, dopo averne bevuta una sola tazza pare “invasato dallo stesso spirito d’Asmodeo”, tanto è “l’ardore” che gli si accende “nel sangue”.
Non si trattava dunque solo di una bevanda pericolosa per il corpo, ma addirittura “mortifera all’anima” – soprattutto considerando il fatto che gli adepti della cioccolata erano in primo luogo le “dame cioccolatiere”, quelle “cortesissime” gentildonne di ogni parte d’Italia che, “abituate ed avide di bere cotidianamente questo nettare d’India”, “col finto titolo di sovvenire con esso al bisogno della salute corporale” si ingegnavano di “palliare il fine indiretto che hanno in gustarlo”, cioè di “vezzeggiare con essa il corpo e lusingare i sensi e ‘l palato”.
Una droga libidinosa, questa cioccolata, corrutrice dell’anima.
(Attaccarla però, sia detto, era difficile anche per lo stesso Felini, che infatti non cita mai per nome i bersagli della sua polemica, forse per il fatto che tra coloro che facevano professione di cioccolatieri incalliti, erano da annoverare varie eminenze grigie, o meglio, bianche, quali gli stessi papi Pio V e Urbano VII)


“Differenza tra il cibo e ‘l cioccolate”, una questione di definizione.

La replica, anonima (firmata da un certo Giovan Battista Gudenfridi), apparve nel 1677 a Genova.
In apertura di questa “Differenza tra il cibo e ‘l cioccolate” si dichiara che le posizioni a favore della rottura del digiuno pongono come “indubitato un principio assai dubbioso”, quello cioè per cui la cioccolata sia da definirsi come un cibo. Il fatto invece è assai “incerto, oscuro, dubbioso”.
Dei suoi quattro ingredienti fondamentali infatti - pepe, cinnamono, zucchero e cacao – i primi tre erano “puri condimenti”; ed ogni condimento è da considerarsi piuttosto “un puro medicamento, cioè a dire, un contrapposto per diametro al puro alimento”, dal momento che non poteva trasmutarsi mai “in chilo, non mai in sangue, non mai in nutrimento”. Nemmeno il cacao, infine, poteva qualificarsi come “proprio e vero alimento, né pieno, né mediocre, né tenue”.
Di qui la conclusione che la cioccolata “né rompe, né romper può il digiuno della Chiesa, ancorché, a piacere più volte il giorno, si pigli in che quantità e in che misura si vuole, siasi o a modo di cibo, o vero a modo di bevanda”.
Insomma, se siete in periodo di digiuno, potete mangiare 15 chili di zenzero senza commettere peccato, perché lo zenzero non è un alimento, ma un condimento (o spezia, o “droga”). Così, anche la cioccolata, era da concepire come una sorta di zenzero sciolto in acqua.
“Legalizziamola”, dunque, sembrava essere l’esortazione di questi seicenteschi sostenitori della liberalizzazione del “cioccolatte”.
Una buona tazza di cioccolata, tutt’altro dall’essere “fomento della concupiscenza”, riempiva infatti secondo il loro portavoce Gudenfridi “l’arterie, le vene, e ‘l corpo di spiriti vitali, dolci, benigni durevoli e maravigliosamente proporzionati a ogni più sollevata operazione della testa, del cuore e della vita ragionevole”.
E poi, stando a quanto si poteva leggere nella biografia di “S. Rosa, vergine del Perù e religiosa del fiorentinissimo Ordine di S. Domenico”, e cioè il fatto che le era apparso un angelo per offrirle “una coppetta di cioccolate”, bisognava concludere che la cioccolata non era solo un “lattovaro rinfrescativo”, un “nettare generativo di spirito vitale”, ma una vera e propria “bevanda angelica”.




La fisiologia del gusto

Ogni cosa ha la sua morale, basta trovarla” (Lewis Carrol)
Dunque, in conlusione, la morale:

1- Ogni cibo che consumate si carica di implicazioni sociali, culturali, teologiche superiori a qualunque vostra aspettativa. Attenzione a quando masticate.

2 - I cavilli definitori sono sempre quelli su cui si giocano le questioni scottanti, tanto sulla vita e la morte, quanto sulla cioccolata e le altre “droghe”: zenzero, origano, cannabis e spezie varie.
Qui si tratta di stabilire il limite tra vivanda (o bevanda) e condimento, che rende non peccaminoso un certo atto oppure lo legittima. La differenza dunque è tra la pepsi (bevanda) e l’aceto (condimento).
Ma se mettete la pepsi sull’insalata, allora siete in regola?
I teologi si spezzino la testa. Quello che c’è comunuqe da sottolineare è che anche noi oggi siamo a discutere su delle definizioni; sulla misura in cui siano “alimenti”, per rimanere in tema, le pratiche e le sostanze con cui si mantiene in vita una persona in stato vegetativo permanente, o se non siano piuttosto da considerarsi “medicamenti”, o “condimenti” artificiali per la vita di un corpo non più senziente. Discutiamo poi anche sul perché il tabacco ed alcool non rientrino nella categoria delle droghe, nonostante diano dipendenza e alterino la coscienza proprio come la cannabis etc. etc. Sembra, in ogni caso, trattarsi di una questione di definiens, proprio come quelle affrontate dai teologi in ambito cioccolatiero.

3 - Nel 1825 il gastronomo e pensatore francese Jean Anthelme Brillat-Savarin pubblicò in un libro dal titolo "La fisiologia del gusto". Nel capitolo introduttivo ci sono venti aforismi, tra cui, dopo: “Cuoco si diventa, rosticcere si nasce” e: “Un pasto senza vino è come un giorno senza sole”, c’è anche il feuerbachiano: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.
Non so se Savarin avesse letto Feuerbach, o Nietzsche, e le considerazioni sull’alimentazione graminacea degli orientali, sul cristianesimo e l’alcool come i narcotici dell’occidente... comunque il gastronomo pare voler cogliere e sottolineare la relazione essenziale che lega il nostro comportamento alimentare, assai più strettamente di quanto pensiamo, tanto al nostro stato d’animo quanto al ruolo, identità e costituzione sociale della nostra (e di ogni) epoca.
Dunque, se seguiamo Savarin, ci troviamo a dover prendere atto anche del suo aforisma conclusivo:



“Il destino delle Nazioni dipende dal modo con cui si nutrono”.



Sulla base di questo io propongo una nuova dieta e filosofia globale del cioccolato, che inizi con un' obbligatoria chicchera fumante al mattino e giunga fino a mettere delle palle di cioccolato negli stessi cannoni, rimpiazzando i fiori sessantottini. (Le palle di Mozart in Austria, o le uova di Pasqua da noi vanno bene comunque; e chissà che le sei palle sul blasone dei Medici non siano proprio di cioccolata?)
Sempre seguendo Savarin, concludo chiedendo se qualcuno di voi si vuole associare al mio nuovo progetto di aprire una rosticceria, per vedere se ha o no la nobile art nel sangue.





P.s: Lindt
Un ultima curiosità: nel 1879 lo svizzero Rodolphe Lindt inventò un metodo originale per raffinare il cioccolato. Scoprì il segreto per rendere il cioccolato più morbido e vellutato. Si tratta di un sistema che rende la miscela di cioccolato così fluida da sciogliersi in bocca. Lindt chiamò la nuova creazione "Chocolat fondant", che si fonde in bocca. Oggi il procedimento inventato da Lindt è conosciuto come il "concaggio".

martedì 10 febbraio 2009

Premessa: le parentesi sono mie.

da "Tropico del Cancro" di Henry Miller:


“Nell'aria c'è una sorta di sommesso pandemonio, una nota di violenza repressa, come se per l'esplosione che si aspetta occorresse l'avvento d'un ultimo minuto dettaglio, qualcosa di microscopico ma assolutamente non premeditato, assolutamente inatteso. In quella specie di semisogno che ti consente di partecipare a un fatto pur restandone completamente estraneo, il minuto particolare che mancava comincia oscuramente ma insistentemente a coagularsi, ad assumere forma capricciosa, cristallina, come il gelo che forma disegni sul vetro d'una finestra. E come quei disegni di gelo che paiono tanto bizzarri, così liberi e fantastici, ma che tuttavia sono determinati da leggi rigidissime, così questa sensazione, che aveva cominciato a prender forma dentro di me, pareva anch'essa obbedire a forme ineluttabili. Tutto l'esser mio rispondeva al dettato di un ambiente di cui mai prima di allora avevo fatto esperienza; quella cosa che io avrei potuto chiamare me medesimo pareva contrarsi, condensarsi, accorciarsi rispetto ai limiti vieti, usuali della carne, la cui periferia conosceva soltanto le modulazioni delle terminazioni nervose. E quanto più sostanziale, quanto più solido diventava il nocciolo di me medesimo, tanto più minuta e stravagante appariva la realtà vicina, palpabile, che mi stava strizzando. Nella misura in cui sempre più io diventavo metallico, nella stessa misura si gonfiava la scena dinanzi ai miei occhi. Lo stato di tensione era ormai così perfettamente equilibrato che l'introduzione di una sola particella estranea, anche di una particella microscopica, diciamo, avrebbe sconquassato ogni cosa. Per una frazione di secondo, forse, io provai quella estrema chiarezza che all'epilettico, dicono, è dato di conoscere. In quel momento io persi completamente l'illusione del tempo e dello spazio: il mondo spiegò il suo dramma simultaneamente, lungo un meridiano che non aveva asse. In quella specie di eternità, arrischiata come in punto al grilletto più sensibile di un'arma, io sentivo che ogni cosa aveva la sua giustificazione, la sua giustificazione suprema; sentii le guerre dentro di me che s'erano lasciate dietro questa melma, questi relitti; sentii i crimini che bramavano di emergere domani in titoli cubitali; sentii la miseria che si macinava da sé con pestello e mortaio, la lunga opaca miseria che sbava via nei fazzoletti sporchi. Sul meridiano del tempo non c'è ingiustizia; c'è soltanto la poesia del movimento, che crea l'illusione della verità e del dramma. Se in un momento qualsiasi, in un posto qualsiasi, uno si trova faccia a faccia con l'assoluto, allora si gela quella grande simpatia che fa sembrare divini uomini come Gotamo e Gesù; la cosa mostruosa non è che gli uomini han tratto rose da questo mucchio di sterco, ma è invece che essi per una qualche ragione, debbano volere le rose. Per una qualche ragione l'uomo cerca il miracolo, e per ottenere questo egli è pronto a guadare un fiume di sangue. Si corromperà con le idee, si ridurrà un'ombra, purché per un secondo soltanto della sua vita possa chiudere gli occhi all'orrore della realtà. Ogni cosa si sopporta: sfacelo, umiliazione, miseria, guerra, delitto, ennui(noia) nella fiducia che dalla sera alla mattina accada qualcosa, un miracolo, che ci renda sopportabile la vita. E intanto dentro di noi gira un contatore e non c'è mano che possa raggiungerlo e fermarlo. Intanto qualcuno mangia il pane della vita e ne beve il vino, un grasso sudicio bacherozzo di prete che si nasconde in cantina a gozzovigliare, mentre sopra, nella luce della strada, una moltitudine di fantasmi si sfiora con le labbra e il sangue è pallido come l'acqua. E dal tormento interminabile e dalla sciagura non può venir miracolo, nemmeno il più microscopico vestigio di conforto. Soltanto idee, idee pallide, estenuate, che bisogna ingrassare con la strage; idee che vengono su come la bile, che affiorano come le budella di un maiale quando si sventra la carcassa. E così io penso che miracolo sarebbe se questo miracolo che l'uomo aspetta in eterno si dimostrasse non essere altro che quei due stronzi enormi che il fedele discepolo molla nel bidet (il fedele discepolo è un indù che caga, sbagliando, nel bidet di un bordello, dove era stato accompagnato dal personaggio che parla). E che, se all'ultimo momento, quando il tavolo del banchetto è imbandito, e strepitano i cembali, comparisse all'improvviso, del tutto senza preavviso, un vassoio d'argento su cui persino un cieco vedesse che non c'è niente più, e niente meno, di enormi pezzi di merda. Questo, io credo, sarebbe più miracoloso di ogni e qualsiasi cosa che l'uomo abbia mai desiderato. Sarebbe miracoloso proprio perché nessuno mai avrebbe potuto sognarselo. Sarebbe più miracoloso del sogno più pazzo perché chiunque potrebbe immaginarne la possibilità, ma nessuno l'hai mai immaginata, né probabilmente la immaginerà mai più.

Non so come, la constatazione che non c'era più nulla da sperare ebbe su di me un effetto salutare. Per settimane e mesi, per anni, anzi per tutta la vita, io avevo atteso che qualcosa succedesse, un evento intrinseco che alterasse la mia vita, e ora all'improvviso, ispirato dall'assoluta disperazione di ogni cosa, mi sentii sollevato, mi sentii come se m'avessero tolto dalle spalle un grande peso.”




da "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di P. P. Pasolini, purtroppo il primo video l'ho trovato solo in spagnolo.

martedì 3 febbraio 2009

"Non è vero che io racconto barzellette, anzi disistimo chi lo fa" (Silvio Berlusconi, Ansa 27/09/2002)

Recentemente Berlusconi è andato in Sardegna a condurre la campagna elettorale contro il governatore uscente del Pd Renato Soru.
Il 17 Gennaio ha tenuto un comizio al Teatro Eliseo di Nuoro durante il quale ha raccontato una "barzelletta" sui campi di concentramento, volendo forse, a suo modo, celebrare il Giorno della Memoria del 20 Gennaio:

«Un kapò all'interno di un campo di concentramento dice ai prigionieri che ha una notizia buona e un'altra meno buona. La notizia buona è che metà di voi sarà trasferita in un altro campo. E tutti contenti ad applaudire... La notizia meno buona è che la parte di voi che sarà trasferita è quella che va da qui in giù...», indicando la parte del corpo dalla cintola ai piedi. (Corriere della Sera - Teatro Eliseo di Nuoro - 17 Gennaio 2009)

Non era la prima volta che raccontava questa "barzelletta", anzi l'aveva già raccontata nel febbraio 2004 durante un incontro con i governatori delle Regioni, quindi era anche recidivo:

"Nel corso della lunga riunione, il presidente del Consiglio - sempre secondo il racconto del governatore delle Marche, Vito D'Ambrosio - ha raccontato una barzelletta: "in un campo di prigionia il kapò riunisce tutti i prigionieri annunciando loro una notizia buona e una cattiva. "La notizia buona è che una parte dei prigionieri del campo verrà trasferita in un altro campo." A quel punto i prigionieri chiedono di sapere la notizia cattiva, e un guardiano, facendo segno con la mano, sentenzia: "Da metà vita in giù resteranno in questo campo, da metà vita in su saranno trasferiti"" (cronaca dell'incontro con i governatori regionali, Ansa, 18 febbraio 2004).

Non era neanche la prima volta che raccontava "barzellette" che definire di pessimo gusto è poco, lo aveva già fatto nel 2000, in quell'occasione riguardante i malati di Aids:

"Un malato di Aids va dal medico e gli chiede: "Dottore, cosa posso fare per la mia malattia?". Il medico risponde: "Faccia delle sabbiature". "Ma dottore, mi faranno veramente bene?" "Bene no, ma sicuramente si abituerà a stare sottoterra"" (Ansa, 3 aprile 2000).

Il "bello" è che quando dalla sua abituale risibilità Berlusconi sfocia nella mostruosità e qualcuno glielo fa notare, lui non reagisce dicendo "ragazzi scusate ho detto una stronzata" ma fa l'offeso e parte all'attacco a testa bassa, come per esempio nella questione Obama "abbronzato" in cui rispose in questo modo alle critiche:
«Se scendono in campo gli imbecilli siamo fregati. Dio ci salvi dagli imbecilli. Come si fa a prendere un grande complimento come una cosa negativa? Ma che vadano a...» e aggiungendo in seguito: «Perché c'è qualcuno che ha obiettato? Uno può sempre prendere la laurea del coglione quando vuole. Se uno vuole prendere una laurea pubblica ogni occasione è buona. Io mi sono veramente rotto e dico quello che penso».
Quando invece raccontò la "barzelletta" sui malati di Aids, alle inevitabili contestazioni da parte di esponenti di sinistra rispose così:
«Ho sempre pensato che Veltroni fosse una macchietta, ma ora è peggio: è un miserabile» e in più «Mi ero sbagliato: non sono alla frutta [aveva detto che la sinistra era alla frutta], sono alla canna del gas. Consiglio le sabbiature anche a loro... Povera Italia».

lunedì 2 febbraio 2009

"Oh Cielo! Ha rotto il bicchiere!"

Quando mi chiedono se vedo il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, in genere, se sono abbastanza sbronzo, gli racconto una storia.

Dovete sapere che in questo stesso bar, in questa stessa città, in questo stesso mondo, ma in un altro universo, ci siete voi. Esattamente uguali. E state ascoltando questa storia, per giunta!
Ma, se in quest'altro universo state guardando questo bicchiere, come state facendo in questo momento, vi vedrete dentro un po' più vodka di quanta non ne vediate voi in questo universo in questo momento.

Come potrete immaginare, però, c'è anche un altro universo in cui voi state vedendo un po' meno vodka di quanta non ne vediate in questo universo in questo momento.

Voi qui (come i Voi là) vi potrete chiedere: "come vedono i miei Me i bicchieri nell'altro universo?".

E sono sicuro che ve lo state chiedendo.

E la risposta, miei affezionatissimi, è che potrebbero darvi una risposta sensata solo se esistessero davvero, non fossero parte di una storia, e potessero sapere che voi esistete e qual è la quantità di vodka nel vostro bicchiere. Ma purtroppo (o per fortuna?) Voi, come Loro, non avete la possibilità di fare paragoni e quindi non avete il diritto di lamentarvi (perché che voi siate pessimisti o ottimisti, lo so cari miei, vi state lamentando di qualcosa) e l'unica cosa che potete dire se siete onesti è che quel bicchiere è a mezzo.

Quanto a me, in genere concludo la storia scolando il bicchiere e lanciandolo contro il muro alle mie spalle: "Ecco come vedo il bicchiere", dico, in genere, indicando le schegge di vetro.