sabato 18 dicembre 2010

Le bon Dieu est dans le détail.


“Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?". Tre domande generali:

Da una nota di Umberto Eco su Aristotele (e il suo commentatore Aubenque): “In Poetica 1476b 7 (nota Aubenque) si dice: “Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?. Aubenque (1962: 116) cita una pagina degli Elenchi. Poiché non si possono portare nella discussione le cose stesse,ma dobbiamo servirci dei loro nomi come di simboli, noi supponiamo che ciò che avviene nei nomi avvenga anche nelle cose, come del caso dei sassolini che si usano per contare. Ma tra nomi e cose non vi è completa rassomiglianza, i nomi sono in numero limitato, e così la pluralità delle definizioni, mentre le cose sono infinite in numero (e infiniti sono i loro accidenti)” (Kant e L'ornitorinco, n. 10 p. 390)

1) Bordeaux, Granata, Rosso Geranio, Rosso Cadmio, Rosso Tiziano, Borgogna, Carminio, Sangria, Ruggine, Mattone, Rosso cardinale, Rosso Veneziano, Rosso di Persia, Terra cotta, Castagno, Ciliegia, Corallo, Melograno, Rosso Scarlatto, Vermiglione etc…. Posso percepire tutte le sfumature del rosso se non padroneggio questi concetti? (Per una considerazione del rapporto tra linguaggio e cose, dal punto di vista del dibattito tra filosofi della scienza, vedi il vecchio post)

2) Che rapporto c’è tra il vocabolario che imparo ad usare durante il corso di pittura e la mia capacità d’osservare certe sottili sfumature di colore nelle cose che mi circondano? E - per restare alla moda - tra le parole che apprendo (con molta fatica) ad usare durante il corso di sommelier e la complementare capacità che acquisisco (con analoghi sforzi) di discernere le sfumature di sapore della mia esperienza gustativa?

3) Che ruolo gioca la mia educazione (sviluppo della capacità percettiva ed estensione del mio vocabolario) all’interno dei processi con cui percepisco gli eventi (non solo percettivi, la domanda vale anche per quelli politici e storici, ma è più comodo partire dai casi base)?


Verso una teoria della sfumatura. (De Lillo Vs Calvino, II Puntata. Ciclo dei dialoghi)

"11 gennaio 1955

Talvolta penso che l’educazione che dispensiamo qui sia più adatta a un cinquantenne che ha capito di aver mancato il bersaglio al primo giro. Troppe idee astratte. Verità eterne a destra e a sinistra. Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti. A te in particolare, Shay, visto da dove vieni.
Questo parve rianimarlo. Si sporse sopra la scrivania e fissò, letteralmente, i miei stivali bagnati.
– Sono oggetti orribili, vero?
– Sì senza dubbio.
– Nominami le parti. Coraggio. Qui non siamo così ricercati, non siamo così intellettualmente chic da non poter esaminare uno studente faccia a faccia.
– Nominare le parti, – dissi. – D’accordo. Stringhe.
– Stringhe. Una su ogni scarpa. Procedi.
Alzai un piede e lo girai goffamente.
– Suola e tacco.
– Sì, continua.
Posai di nuovo il piede a terra e fissai lo stivale, che mi parve inespressivo quanto uno scatolone chiuso.
– Procedi, ragazzo.
– Non c’è molto da nominare, le pare? Un davanti e un dietro.
– Un davanti e un dietro. Mi fai venire voglia di piangere.
– La parte arrotondata sul davanti.
– Sei talmente eloquente che devo fare una pausa per riavermi. Hai nominato le stringhe. Come si chiama il lembo sotto le stringhe?
– La linguetta.
– Be’?
– Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.
Padre Paulus fece il suo piccolo numero, buttandosi a corpo morto sulla scrivania e sussultando lievemente come se fosse in preda a una terribile angoscia.
– Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi.
Tentennò il capo come per rimproverarmi aspramente, con un gesto teatrale, e si ritrasse dal piano della scrivania, lasciandosi cadere sulla sedia girevole e guardandomi di nuovo prima di fare un quarto di giro deciso e sollevare la gamba destra quel tanto che bastava perché il piede, o meglio la scarpa, trovasse una sistemazione sul bordo della scrivania, punta all’insù. Una normalissima scarpa da prete nera.
– D’accordo, – disse. – Suola e tacco li conosciamo.
– Sì.
– E abbiamo identificato la linguetta e le stringhe.
– Sì, – dissi.
Delineò con il dito una striscia di pelle che attraversava il bordo superiore della scarpa e scendeva sotto la stringa.
– Cos’è? – chiesi io.
– Dimmelo tu. Cos’è?
– Non lo so.
– È il risvolto.
– Il risvolto.
– Il risvolto. E questa sezione rigida sopra il tacco. Questo è il rinforzo.
– E questo pezzo a metà tra il risvolto e la striscia sopra la suola. Questo è il dorso.
– Il dorso, – ripetei.
– E la striscia sopra la suola. Quello è il guardone.
Ripetilo, ragazzo. – Il guardone.
– Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano. E l’area frontale che copre il collo della scarpa come si chiama?
– Non lo so.
– Non lo sai. Si chiama tomaia.
– Tomaia.
– Ripetilo.
– Tomaia. L’area frontale che copre il collo della scarpa. Credevo di non dover imparare le cose a memoria.
– Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo. E la stringa la fai passare attraverso che cosa?
– Questo dovrei saperlo.
– Certo che lo sai. I buchi su entrambi i lati e sopra la linguetta.
– Non mi viene in mente la parola. Occhiello.
– Forse ti lascerò vivere, dopotutto.
– Gli occhielli.
– Sì. E il rivestimento metallico su ciascuna estremità della stringa?
Diede un colpetto all’oggetto in questione con il dito medio.
– Questo non lo saprei neanche tra un milione di anni.
– L’aghetto.
– Neanche tra un milione di anni.
– Il puntale o aghetto.
– L’aghetto, – ripetei.
– E il piccolo anello di metallo che rinforza il bordo dell’occhiello attraverso cui passa l’aghetto. Stiamo facendo la fisica del linguaggio, Shay.
– L’anellino.
– Lo vedi?
– Sì.
– Questa è la guarnizione, – disse.
– Oddio, ragazzi.
– La guarnizione. Imparala, conoscila e amala.
– Sto andando fuori di testa.
– Questa è la conoscenza arcana definitiva. E quando porto la scarpa dal calzolaio e lui la mette su una forma per fare le riparazioni, un blocco di legno a forma di piede. Come si chiama?
– Non lo so.
– Si chiama semplicemente forma da scarpa.
– Mi si sta spaccando la testa.
– Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila, – mi intimò.
– Quotidiano.

(…)
Mi oltrepassò con lo sguardo, facendo un ragionevole cenno d’assenso, e io mi girai per andarmene. Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano. Questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.


Underworld, Frammenti degli anni ’50 e ’60, pp. 576 – 580 .

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Dettagli del calzolaio, dettagli del falegname.

La terza lezione americana di Calvino è dedicata al valore dell' Esattezza, di cui all’inizio lo scrittore definisce 3 significati. Il terzo significato (della terza lezione) è l'accezione che mi interessa “un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. A tal proposito Calvino riprende un dialogo dalle Città invisibili in cui Kublai Kahn gioca a scacchi con Marco Polo e compara le sue conquiste alle mosse vincenti di una partita.

“La conclusione finale cui lo porta questa operazione - scrive Calvino - è che l’oggetto delle sue conquiste non è altro che il tassello di legno sul quale ciascun pezzo si posa un emblema del nulla…
Ma in quel momento avviene un colpo di scena: Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla:


'Ormai Kublai Kan non aveva piú bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell'impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s'aprono alle incursioni dell'alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell'umile pedone, dalle alternative inesorabili d'ogni partita. Il Gran Khan cercava d'immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d'ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.

Allora Marco Polo parlò: - La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di
siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l'obbligò a desistere -. Il Gran Khan non s'era fin'allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. - Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d'una larva; non d'un tarlo, perché appena
nato avrebbe continuato a scavare, ma d'un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l'albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall'ebanista con la sgorbia perché aderisse al
quadrato vicino, più sporgente...
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli
approdi, delle donne alle finestre...' ”

Da Marco Polo a Calvino :
“Così negli ultimi anni ho alternato i miei esercizi sulla struttura del racconto con esercizi di descrizione, arte oggi molto trascurata. Come uno scolaro che abbia avuto per compito “Descrivi una giraffa” o “Descrivi il cielo stellato” [descrivi una scarpa], io mi sono applicato a riempire un quaderno di questi esercizi e ne ho fatto materia di un libro. Il libro si chiama Palomar ed è uscito ora in traduzione inglese: è una specie di diario su problemi di conoscenza minimali, vie per stabilire relazioni col mondo, gratificazioni e frustrazioni nell’uso del silenzio e della parola”.

III Lezione – Esattezza pp.81 - 83
FINE

martedì 14 dicembre 2010

L’anello di Carlomagno. (Epigrafe o appendice al post precedente)

Riprese in mano le Lezioni Americane di Calvino dopo il baseball, mi sono imbattuto in una considerazione interessante, soprattutto per chi avesse letto il post precedente (e il rispettivo libro). Il passo si trova nel quinto e sesto paragrafo della seconda lezione, che Calvino dedica al tema (qui non centrale) della Rapidità.
Le lezioni, si sa, erano state scritte per essere tenute come lectures ad Harvard nell’anno accademico 1985-1986. Calvino morì però il 18 settembre 1985 a Siena, e non le lesse mai. Curioso, prima di cominciare, l’aneddoto da cui le Lezioni traggono il loro nome (quando morì, Calvino non aveva ancora dato il titolo italiano alle conferenze - sarà la moglie a farlo e a spiegare il motivo della scelta nella Nota Introduttiva): “Se mi sono decisa finalmente per Lezioni americane è perché in quell’ultima estate di Calvino, Pietro Citati veniva a trovarlo spesso al mattino e la prima domanda che faceva era: Come vanno le lezioni americane? E di lezioni americane si parlava”.

Il dattiloscritto si trovava sulla sua scrivania, in perfetto ordine, ogni singola conferenza in una cartella trasparente, l’insieme raccolto dentro una cartella rigida, pronto per essere messo nella valigia”.

Riporto il testo della lezione fin dall’inizio, per inserire il brano in un contesto (chi volesse può saltare subito agli ultimi due paragrafi):

“Comincerò raccontandovi una vecchia leggenda. L'imperatore Carlomagno in tarda età s'innamorò d'una ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla sua brama amorosa, e dimentico della dignità regale trascurava gli affari dell'Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un respiro di sollievo, ma per poco: perché l'amore di Carlomagno non morì con lei. L'imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene. L'arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l'anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno s'affrettò a far seppellire il cadavere, e riversò il suo amore sulla persona dell'arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quell'imbarazzante situazione gettò l'anello nel lago di Costanza. Carlomagno s'innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive.
Questa leggenda "tratta da un libro sulla magia" è riportata, ancor più sinteticamente di quanto non l'abbia fatto io, in un quaderno d'appunti inedito dello scrittore romantico francese Barbey d'Aurevilly. Si può leggerla nelle note dell'edizione della Pléiade delle opere di Barbey d'Aurevilly (I, p. 1315). Da quando l'ho letta, essa ha continuato a ripresentarsi alla mia mente come se l'incantesimo dell'anello continuasse ad agire attraverso il racconto.
Cerchiamo di spiegarci le ragioni per cui una storia come questa può affascinarci. C'è una successione d'avvenimenti tutti fuori della norma che s'incatenano l'uno all'altro: l'innamoramento d'un vecchio per una giovane,un'ossessione necrofila, una propensione omosessuale, e alla fine tutto si placa in una contemplazione melanconica: il vecchio re assorto alla vista del lago. "Charlemagne, la vue attachée sur son lac de Constance, amoureux de l'abîme caché", scrive Barbeyd'Aurevilly nel passo del romanzo a cui rimanda la nota che riferisce la leggenda. (Une vieille maîtresse).
A tenere insieme questa catena d'avvenimenti c'è un legame verbale, la parola"amore" o "passione" che stabilisce una continuità tra diverse forme d'attrazione, e c'è un legame narrativo, l'anello magico,che stabilisce tra i vari episodi un rapporto logico, di causa ed effetto. La corsa del desiderio verso un oggetto che non esiste,un'assenza, una mancanza, simboleggiata dal cerchio vuoto dell'anello, è data più dal ritmo del racconto che dai fatti narrati. Così come tutto il racconto è percorso dalla sensazione della morte in cui sembra dibattersi affannosamente Carlomagno aggrappandosi ai legami della vita, un affanno che si placa poi nella contemplazione del lago.
Il vero protagonista del racconto è, comunque, l'anello magico: perché sono i movimenti dell'anello che determinano quelli dei personaggi; e perché è l'anello che stabilisce i rapporti tra loro. Attorno all'oggetto magico si forma come un campo di forze che è il campo del racconto. Possiamo dire che l'oggetto magico è un segno riconoscibile che rende esplicito il collegamento tra persone o tra avvenimenti:una funzione narrativa di cui potremmo rintracciare la storia nelle saghe nordiche e nei romanzi cavallereschi e che continua a presentarsi nei poemi italiani del Rinascimento. Nell'Orlando furioso assistiamo a un'interminabile serie di scambi di spade, scudi, elmi, cavalli, ognuno dotato di proprietà caratteristiche,cosicché l'intreccio potrebbe essere descritto attraverso i cambiamenti di proprietà di un certo numero d'oggetti dotati di certi poteri, che determinano le relazioni tra un certo numero di personaggi.
Nella narrativa realistica l'elmo di Mambrino diventa la bacinella d'un barbiere, ma non perde importanza né significato; così come importantissimi sono tutti gli oggetti che Robinson Crusoe salva dal naufragio e quelli che egli fabbrica con le sue mani. Diremmo che dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica d'una forza speciale,diventa come il polo d'un campo magnetico, un nodo d'una rete di rapporti invisibili. Il simbolismo d'un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre. Potremmo dire che in una narrazione un oggetto è sempre un oggetto magico.”

Da Italo Calvino, Lezioni americane. Six memos for the next millenium. (Con nota introdutiva di Esther Calvino) Einaudi 2009.

domenica 12 dicembre 2010

La differenza arriva quando viene colpita la palla. Allora niente è più lo stesso.

“Si sa dunque che è nato nel '36, che è di origine italiana (padre e madre sono originari della provincia di Campobasso) e che è cresciuto nel Bronx, vicino a Arthur Avenue, detestando la scuola che considerava una perdita di tempo e una gran noia e adorando "ogni forma di baseball immaginabile", […]. Che il territorio dei suoi giochi, come per tanti italo-americani, è stata la strada. Che non si sente legato in maniera particolare alle sue origini italiane. Che si è laureato in Scienze della Comunicazione. Che per qualche tempo ha fatto un lavoro che non amava , il copywriter pubblicitario”.

La traiettoria della palla del famoso fuoricampo di Bobby Thomson, Polo Grounds, New York 1951.


Underworld è considerato da vari critici uno dei lavori migliori dello scrittore, nonché uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni, vincitore di numerosi premi. E’ un esempio significativo della letteratura postmoderna americana”


Don de Lillo è dunque un autore appartenente alla corrente del cosiddetto romanzo postmoderno americano, di cui rappresenta forse il più grande esponente insieme a Thomas Pynchon (il famosissimo scrittore ‘recluso’ – l’autore dell’Inganno del lotto 49 - che nessuno ha mai visto e di cui l’ ultima foto nota risale agli anni ’50. qui documentario BBC). Underworld è il titolo di un libro uscito nel 1997, il romanzo da cui vorrei iniziare per estendere ‘il ciclo dei dialoghi’, iniziato con rimando a soli film, anche a brani tratti da testi scritti. Prima però qualche informazione sul racconto e sul suo autore:

Su De Lillo:

“Lontanissimo dal cosiddetto minimalismo, generoso e abbondante, è uno scrittore alla ricerca del Grande Romanzo Americano - l'araba fenice inseguita da ogni scrittore Usa che si rispetti, il romanzo che dirà tutto dell'America, la rappresenterà, parlerà con la sua voce.”

Sul romanzo:

Insieme a Rumore Bianco e Libra (un’ impressionante ricostruzione a metà tra realtà e fantasia dell'assassinio di Kennedy visto dalla parte di Oswald), Underworld (un grandioso affresco di cinquant'anni di America) è uno dei tre "grandi romanzi americani" di De Lillo

L'home run di Thomson sul Daily News, 1951.

Si tratta della biografia di una pallina da baseball, dal 3 ottobre 1951 fino agli anni ’90. La palla è il filo che tiene insieme storie di innumerevoli personaggi, le quali a loro volta sono intessute (e impregnate) nella Grande Storia Americana. Leggendo ci si trova quindi a seguire il passaggio della palla attraverso la storia (ma allo stesso tempo si vede la storia passare dentro la palla, i due processi diventano complementari), in un percorso in cui si intrecciano e ci si mostrano scorci di vita del Bronx, la bomba atomica (una presenza dell'immaginario americano post-bellico quasi ossessiva nel libro), il ballo in maschera di Truman Capote, una miriade di oggetti vecchi e nuovi, lo scorrere delle esistenze di una rete di personaggi finti e veri (nei capitoli del romanzo, che non sono ordinati temporalmente – vedi sotto - si cambia velocemente collocazione temporale e locale; i fili che legano le differenti storie si dipaneranno solo lentamente).

Tra questi ci sono ad esempio Lenny Bruce (il noto comico, cui Bob Dylan ha dedicato una canzone e che i Beatles hanno immortalato nella copertina dell'album Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band - la quarta faccia in alto da sinistra) e John Edgar Hoover (direttore dell’FBI dal 1924 al 1972), che assiste insieme a Frank Sinatra alla partita forse più famosa della storia del baseball , quella tra i Giants e i Dodgers a New York (3 ottobre 1951) vinta con un miracoloso fuoricampo di Bobby Thomson (prima foto sopra).

“Tra loro c’è anche J. E. Hoover. Sta guardando dall’ampio corridoio in cima alla rampa. Ha detto a Rafferty che resterà alla partita. Andarsene non servirebbe a niente. La Casa Bianca darà la notizia tra un’ora. Edgar odia Harry Truman, gli piacerebbe vederelo contercesi su un parquet, stroncato da un attacco di cuore, ma non può criticare il presidente. Dando la notizia per primi, impediremo ai sovietici di presentare l’ accaduto a modo loro, indorando la pillola. E in una certa misura allenteremo la tensione del pubblico. La gente capirà che abbiamo conservato il controllo delle notizie, se non della bomba, che è già qualcosa” (Underworld, p. 23, Il trionfo della morte.)

Prima pagina del New York Times, 4 ottobre 1951.

Mentre Edgar pensa alla bomba appena sganciata dai Russi, la partita si conclude col noto fuoricampo ed entra nella storia (ci hanno addirittura girato un documentario ), facendo di Branca e Thompson (rispettivamente lanciatore e battitore) due personaggi famosi, a tal punto che i due si ritroveranno anni dopo immortalati alla Casa Bianca col presidente Nixon (in una foto che, nel romanzo, sarà un oggetto che ritroveremo appeso in molti luoghi).


Ma chi sia tornato a casa con la palla storica, resta tutt'oggi un mistero.

“Nessuno ha la palla – disse Sims – La palla non è mai saltata fuori. Non se n’è mai saputo niente, chiunque l’abbia avuta per le mani. Questo fa parte della … come si dice? … della mitologia di quella partita. Nessuno si è mai fatto avanti per rivendicare l’autenticità della palla con argomenti credibili. Oppure si è fatta avanti una dozzina di persone, ciascuna con una palla da baseball, il che è sostanzialmente lo stesso” (Underworld p. 100. Primavera-estate 1992).

La palla non è il protagonista del libro (non c’è un protagonista nel libro se non la storia, una corale con molti personaggi tutti o quasi principali; uno di essi, Nick - cresciuto nel Bronx, educazione cattolica - per biografia e tipo di riflessioni è stato considerato un alter ego dell’autore); essa è piuttosto un buco nella storia (quella cosiddetta 'vera') da cui inizia un’altra storia (vera, finta, vera-e-finta, mescolata, bisognerebbe interrogare Carlo Ginzburg a proposito).


(Foto dello smarrimento. Il pilone 35, almeno secondo il romanzo, è verde - la pallina sembra averci sbattuto contro. Non ho controllato su eventuali foto del Polo Grounds, lo stadio dove si disputò l'incontro, se l'informazione sia corretta)


La palla diventa così la cerniera di una grossa tessitura che si svolge davanti al lettore, in cui eventi epocali, persone, oggetti, particolari talvolta insignificanti, la palla stessa , rifiuti di ogni genere ("scorie nucleari, pattume generico, feticci sentimentali, erotici, artistici" sono un altro leitmotiv insieme all'atomica) si mischiano e si legano, presentati con una tecnica narrativa che ci permette di saltare dagli uni agli altri a piacimento, ce li presenta temporalmente e spazialmente separati, connettendoli con rimandi, dettagli che incontriamo in più punti (temporali) nel corso del suo procedere:

“Leggere questa prosa può stranamente risultare come usare un web browser: il focus narrativo si muove da personaggio e personaggio tanto velocemente quanto siamo introdotti ad essi, e il quadro temporale regolarmente cambia me mostrare ulteriori connessioni tra gli attori principali della storia. Questo dispositivo – la letteratura come ipertesto – è particolarmente efficace nelle prime parti della novella, e la tecnica non si intromette mai nella storia stessa”.

Nella storia appare brevemente un collezionista di chincaglie del baseball, un vecchio paranoico (giovane in un passo successivo) rinchiuso in una cantina piena di oggetti per la magior parte insignificanti raccolti nel corso di anni ("spazzatura nostalgica dei tempi andati" , secondo un commento di un amico del compratore della sfera - Primavera-state 1992) tra i quali la palla, che ha rintracciato inseguendola per 22 anni e ricostruendone la storia a ritroso fino al giorno dopo il match (poi c'è un buco nella sua storia, del collezionista):

“- Marvin: La gente colleziona, colleziona, non fa che collezionare. C’è gente che insegue qualsiasi oggetto del periodo della Germania nazista. Nazisterie. Grandi collezioni che cercano la grande storia. Ciò significa forse che gli oggetti accumulati in questa stanza sono del tutto insignificanti? Qual è a parola che sto cercando, che suona come se ti iniettassero un vaccino nel muscolo del braccio?

- Brian: Innocuo si dice.

- Marvin: Sì ecco, innocuo. Cosa sarei io innocuo? Anche questa è storia, le ultime pagine. Storia alla rovescia. Felice, tragica, disperata.” (Underworld, p. 181. Metà anni ottanta\primi anni novanta)


Il libro è una specie di collezione, come quella cheMarvin raccoglie inseguendo la storia della palla a ritroso, in lungo e in largo per l’America.

“La palla non portava né fortuna né sfortuna. Era un oggetto che passava di mano. Ma spingeva la gente a raccontargli cose, confidargli segreti di famiglia e storie personali inconfessabili, a singhiozzare di cuore sulla sua spalla. Perché sapevano che lui era il loro, come dire, il loro strumento di sfogo.
Le loro storie avrebbero assunto un rilievo diverso, sarebbero state assorbite da qualcosa di più vasto, il lungo viaggio della palla stessa e l'assurda marcia di Marvin nel corso dei decenni. “


Non sono le storie narrate da Marvin ad essere oggetto del libro, piuttosto quella di Marvin e della sua ricerca decennale è una storia– che si interrompe nella prima parte – delle molte che compongono il racconto. Nel brano da cui è tratto il dialogo che vi voglio proporre, Nick, il protagonista di uno dei fili del romanzo (lavora nel trattamento industriale dei rifiuti, oggetti di ogni tipo, l’ultimo stadio della ‘storia’ di ogni oggetto), parla ad un prete di un riformatorio in cui è stato rinchiuso (per aver ucciso un uomo di cui ancora si sa pochissimo, ma non mi dilungo su questo aspetto). Visto però che il dialogo non ha niente ha che fare con la palla, lo rimanderò al prossimo intervento, sostituendolo con un altro scambio di battute pseudo- Orwelliano il cui protagonista è sempre il vecchio paranoico, che cammina nel suo scantinato mostrando la collezione ad un visitatore:

Disse a Marvin: – sono cresciuto nel Midwest. Gli Indians di Cleveland erano la mia squadra. E ieri sera, mentre venivo qui in aereo per affari, ho letto un articolo sulla rivista della compagnia aerea, il pezzo su di lei e la sua collezione, e ho provato l’impulso irresistibile di contattarla e vedere queste cose.
Toccò i risvolti di seta della giacca da smoking di Babe Ruth.
- E’ stata mia figlia a convincermi a fare l’intervista, – disse Marvin. – Pensa che io stia diventando una specie di, come-si-chiama.
- Recluso
- Sì, un vecchio recluso con mezzo stomaco soltanto. E così adesso la mia fotografia è nella tasca posteriore di ventimila poltrone. Questa è l’idea che lei ha dell’uscire e incontrare gente. Mi ficcano là dentro insieme ai sacchetti per il vomito.
Brian disse: - sono stato a un’esposizione di macchine e mi ha fatto uno strano effetto.
- Cioè che effetto le ha fatto?
- Macchine degli anni Cinquanta. Non lo so.
- Lei si sta auto commiserando. Pensa che le stia sfuggendo qualcosa ma non sa cosa. Si sente solo nella vita. Ha un lavoro, una famiglia e un testamento già redatto, alla sua età, perché quello che conta è morire preparati, di una morte legale, con tutte le carte in regola. Morire solvibili, così gli eredi possono convertire tutto in denaro sonante. Un tempo pensava di avere le stesse dimensioni dell’intero universo. Adesso è una scheggia smarrita. Guarda le macchine di una volta e si ricorda di uno scopo, di una meta.
- E’ ridicolo, vero? Ma probabilmente è anche irrilevante.
- Niente è irrilevante – disse Marvin – Lei è preoccupato e spaventato. Vede che la guerra fredda sta per finire, e la cosa la lascia senza fiato.
Brian passò attraverso un tornello proveniente da un vecchio campo da baseball. Scricchiolò con un suono nostalgico.
- La guerra fredda? – disse – Bah, non mi sembra che stia finendo. Comunque, se così fosse, tanto meglio. Ne sarei felice.
- Lasci che le spieghi una cosa a cui, forse, non ha mai fatto caso.
Marvin era seduto su una poltrona di fianco a un vecchio baule di attrezzature su cu era impressa la scritta “Boston Red Stockings”. Indicò con un gesto ampio la poltrona dall’altra parte del baule e Brian andò a sedersi.
- Bisogna che i leader di entrambe le parti facciano continuare la guerra fredda, è l’ unico elemento di stabilità. E’ onesta, è affidabile. Perché quando la tensione e la rivalità finiscono, allora sì che comincia il vero incubo. Tutto il potere e l’intimidazione dello stato smetteranno di circolare nel suo sangue e lei non si ritroverà più ad essere .. oddio, cosa volevo dire?
- Non lo so.
- Ah, sì, non sarà più il punto di riferimento principale. Perché verrà aggredito da altre forze bellicose incalzanti. La guerra fredda è sua amica. Per lei è necessario che rimanga predominante.
- Predominante su che cosa?
- Non lo sa? Non capisce che tutta la faccenda è collegata al predominio nel mondo? Non ha visto cosa sta succedendo in Inghilterra? Quarantamila donne che manifestano intorno a una base aerea per protestare contro bombe e missili. Alcune di loro sono uomini travestiti. Ci sono anche dei buddisti che suonano i loro tamburi.
Brian non sapeva come reagire a queste osservazioni. Voleva parlare di vecchi giocatori di baseball, delle dimensioni dello stadio, di soprannomi e di cittadine della minor league. Era per questo che era venuto, per arrendersi alla nostalgia, per ascoltare il suo opsite raccontare aneddoti famosi, le storie ormai classiche di azioni stupide e di risse scatenate, i duelli di lancio che continuavano fino al crepuscolo, storie che Marvin collezionava da mezzo secolo – l’eros intenso della memoria che distingue il baseball dagli altri sport.
Marvin sedeva con gli occhi fissi sul tabellone segnapunti, il sigaro lievemete sfilacciato all’estremità bruciacchiata.

- Credevo avremo parlato di baseball
- Stiamo parlando di baseball. Questo è baseball. Lo vede l’orologio? – disse Marvin – E’ fermo sulle tre e cinquantaquantotto. Perché? Forse perché è l’ora in cui Thomson batté il fuoricampo sul lancio di Branca?
Lo chiamò Branker.
- Oppure perché quello è il giorno in cui scoprimmo che i russi avevano fatto esplodere una bomba atomica. Vuol sapere una cosa di quella partita?
- Cosa? – fece Brian.
- C’erano ventimila posti vuoti. E sa perché?
- Perché?
- Mi riderà in faccia.
- No, glielo prometto.
- D’accordo allora. Lei è mio ospite e voglio che senta a suo agio.
- Come mai tanti posti vuoti per la partita più importante dell’anno?
- Di molti anni, - intervenne Marvin.
- Di molti anni.
- Perché certi eventi hanno una componente di paura inconscia. In cuor mio sono convinto che la gente intuiva la catastrofe nell’aria. E non c’entrava con chi avrebbe vinto o perso la partita. Sentivano una forza tremenda che avrebbe obliterato.. è questa la parola?
- Sì, obliterato.
- Allora, che arebbe completamente obliterato la partita. Deve sapere che per tutti gli anni Cinquanta la gente è rimasta chiusa dentro casa. Uscivano solo per salire in machina. I parchi pubblici non erano pieni di gente così come adesso. Un museo era una serie di stanze vuote con cavalieri in armatura e un guardiano insonnolito ogni sette secoli.
- In altre parole.
- In altre parole, c’era una tendenza sotterranea a restarsene a casa. Perché nell’aria incombeva una minaccia.
- E’ lei vorrebbe dirmi che la gente ha avuto un’intuizione su questa giornata particolare?
- Sì, è come se lo sapessero. Intuivano che c’era un legame tra la partita e un avvenimento sconvolgente che si sarebbe verificato dall’altro capo del mondo.
- Queste partita in particolare.
- Non il giorno prima o il giorno dopo, perché si trattava della partita del tutto-o-niente tra i due più odiati rivali della città. La gente aveva il presentimento che quella partita fosse legata a qualcosa di molto più grosso. Per cui passarono attraverso il processo mentale di chiedersi, Voglio davvero uscire e trovarmi tra la folla, che è il posto peggiore in cui essere se succede qualcosa di orribile, oppure sarà meglio che resti a casa con la mia famiglia e il mio televisore nuovo di zecca, come suggerisce il buon senso, nel suo mobiletto impiallacciato d’acero.
Con sua sorpresa Brian non respinse questa teoria. Il che non significa necessariamente che vi credesse, però non la respinse. Ci credeva provvisoriamente, qui in questa stanza sotto il livello della strada, in una casa di legno, nel pomeriggio di un giorno di feriale a Cliffside Park, New Jersey. Era liricamente vera, mentre usciva dalla bocca di Marvin Lundy e arrivava all’orecchio medio di Brian, indimostrabilmente vera, remotamente e in ammissibilmente vera, ma non del tutto avulsa dalla storia, non priva di autentica storia interiore.
- E devo dire che la faccenda ha un interesse perché quando fabbricano una bomba atomica, questa è bella, il nucleo radioattivo lo fanno della stessa dimensione di una palla da baseball – disse Marvin.
- Ho sempre creduto che avesse la dimensione di un pompelmo.
- No. Di una palla da baseball regolamentare da major league, non inferiore a ventitré centimetri di circonferenza, secondo il regolamento.”

FINE
(Il corsivo delle parti non-dialogate è mio)




Il post è messo insieme a partire da varie recensioni del libro cui ho attinto (e che ho tradotto) liberamente 1, 2., da un vecchio articolo di Repubblica e uno del Sunday Times. Per una serie di ulteriori articoli sui lavori di De Lillo (l’ultimo romanzo, Point Omega, è uscito lo scorso febbraio) qui. Il titolo del post è anch'esso una citazione dal romanzo: "La differenza arriva quando viene colpita la palla. Allora niente è più lo stesso. Gli uomini scattano, rialzandosi dalle loro posizioni accosciate, e tutto si sottomette al volo della palla che schizza via come un sasso sull'acqua [...]" (Underworld, p. 23 Il trionfo della morte.)

domenica 17 ottobre 2010

Cercare di non dover scegliere.


“Per alcuni era un apostata, amatissimo come interprete delle opere per pianoforte di Bach, Mozart e soprattutto Beethoven, ma temuto a causa della sua radicalità, che come compositore e fan del Jazz lo conduceva verso il mondo dell’ improvvisazione. Per altri invece era quello che per eccellenza calcava il confine: uno che apriva le porte del genere per superare le linee di demarcazione culturalmente ristrette di rappresentazione e interpretazione, trabordando in ogni direzione“.





[Qui c'è solo un pezzo del 'Concerto per violoncello e orchestra di fiati che volevo farvi ascoltare, perlopiù inserito all'interno di un' intervista (auf Deutsch) a Gulda. Trovate il primo movimento completo in una bella esecuzione qui, non sono riuscito ad 'incorporarlo' nel post. ]

Friedrich Gulda è annoverato tra i più grandi pianisti del ‘900. Con Jörg Demus e Paul Badura-Skoda, Gulda formava quella che divenne nota come la "troika viennese". E’ uno specialista di Beethoven, di cui già a 23 anni suona l’intero repertorio delle sonate, in ordine cronologico (un progetto inusuale e sorprendente per gli anni ’50), e di cui - nonostante la sua vena 'mescolatrice' - rimane uno dei più grandi interpreti.

A sedici anni vince il primo premio nel prestigioso concorso internazionale di Ginevra, e quello fu il trampolino di lancio per la sua carriera da pianista:

“Nel Concorso di Ginevra del 1946, sedicenne, suona un Beethoven impressionante, con la sicurezza d’un maturo leone della tastiera, quasi una sintesi della scuola tedesca e austriaca novecentesca. La giuria capisce subito di trovarsi di fronte a un pianista fenomenale. La sua carriera è folgorante. L’interpretazione del suo Beethoven è di levatura storica, il suo Mozart incantevole (ed esageratamente ornato).”






“Masculino a chiare lettere, potente, determinato, deciso. I contesti massici gli riescono tutti d’un pezzo, diventano scrutabili in una sola occhiata, semplici. Anche con un tempo scatenato non si concede mai un lapsus in chiarezza [letteralmente: una ‘non-chiarezza’, Undeutlichkeit] Mai la sua sinistra fruga, così, semplicemente a caso; mai la destra si riposa senza avere uno scopo preciso. Il suo talento manuale è straordinario. Egli ‘può’ - tecnicamente parlando - molto più di Schnabel o Kempf, di Fischer o dello stesso Richter. E Gulda ha chiaro a se stesso, ciò che può” [dall’ antologia di Joachim Kaiser: "Große Pianisten in unserer Zeit", mal tradotto da me]

Ma a Ginevra, ospite di una famiglia appassionata di jazz, Gulda si innamora di quella musica che continuamente gira sul grammofono. Vittima di una specie di illuminazione, pare, divenne un vero fan del jazz avviandosi a divenire quel noto enfant terrible capace di contaminare i due generi (ma non solo) procurandosi nemici da entrambe i lati degli schieramenti ‘puristi’ di ciascuno dei due.

Comincia tutto durante un proprio concerto. Quando gli fu richiesto un bis, Gulda non sceglie di suonare Schumman o Chopin, ma suona una sua improvvisazione di A night in Tunisia, noto brano di Dizzy Gillespie. Fu uno scandalo.

Da lì inizia il piano inclinato. Le sue apparizioni sul palcoscenico sono sempre non convenzionali, eccentriche e controverse: tutti i concerti, sempre rigorosamente senza le luci spente in sala, vedono Gulda vestito in maniera trasandata, zuccotto di lana in testa, pantaloni usciti dalla bocca di un cane, maglione scuro spiegazzato, Rolex d’oro al polso, impegnato a descrivere tutti i brani eseguiti di volta in volta. Gulda propone composizioni permeate di jazz ma ricondotte alla forma classica del tema con variazioni, del preludio e fuga, della sonatina, assolutamente esemplari.
I suoi concerti erano dei mélanges particolari, in cui un notturno di Chopin e un impromptu di Schubert si alternavano a dei pezzi Jazz di sua composizione o delle lunghe improvvisazioni su un tema di Thelonius Monk.

Le performance di Gulda partono da Mozart


(L'eccentricità nel vestire e l'auto-conduzione ricordano tra le altre cose un altro contaminatore come Gilles Apap, su cui discutemmo a suo tempo. Per alcuni i vestiti di Gulda rappresentano lo specchio del patchwork che è la sua musica. Non si sa se è vero, ma sembra che il palcoscenico classico sia rimasto uno dei pochi luoghi dove si può trasgredire ancora col solo abbigliamento.)

e finiscono in delle variazioni sul tema di Light my fire dei Doors






Pare che una volta abbia suonato nudo sul palcoscenico il flauto traverso (che aveva imparato a suonare, dopo il pianoforte, assieme al sassofono baritono e a qualche altro strumento), ed è certo che durante i suoi concerti aveva l’abitudine di deviare dai programmi di sala e suonare altre opere.

Nell’estate 1973 Gulda doveva inaugurare col concerto di apertura il V Forum della Musica internazionale. Avrebbe dovuto suonare il Wohltemperierten Klavier di Bach, e invece iniziò con di pezzi sconosciuti. Quando due ore dopo concluse questa sua esecuzione - e nel frattempo la magior parte degli ospiti se ne era andata - Gulda suonò per due ore il Wohltemperierte Klavier.
Nel 1969, quando gli fu conferito il Beethoven-Ring (anello di Beethoven) dall’accademia di musica di Vienna, Gulda criticò nel suo discorso di ringraziamento, davanti a Direttore, Professori e Studenti, la vecchia e polverosa macchina dell’educazione musicale. Pochi giorni dopo restituì l’anello.

Il 29 marzo del 1999 simulò la sua morte per preparare gli spettatori alla sua ultima opera, intitolata "Resurrezione". Ironia della sorte vuole che la data del suo reale decesso sia stata piuttosto vicina a quello simulato. Morì l’anno dopo, il 27 gennaio (stesso giorno di nascita di Mozart). "Cerco di non dover scegliere", questo è sempre stato il suo motto, dal 1960 in poi sempre in bilico tra musica classica e musica afro-americana.




[Questo è l'ultimo movimento dal Concerto per violoncello e orchestra di fiati con cui avevo iniziato]
LINK:
- C'è un 'Ritratto' di Gulda fatto da Enrico Raggi sul sito Il Sussidiario, qui.
- La radio svizzera 'Retedue' ha realizzato un' interessante emissione su Gulda (versante Jazzista) che si trova qui , c'è anche un'intervista al 'Maestro'.
FONTI: Questo post è un collage di informazioni reperite in parte sui due siti sopracitati, in parte tradotte da due pagine internet su Gulda (l'una in inglese su classicaltv.com, l'altra in tedesco su klassikakzente.de), e un po' messe insieme a memoria da una trasmissione che ho ascoltato di recente su Rete Toscana Classica.

lunedì 23 agosto 2010

Prima linea

Dal profilo (pubblico) di Facebook di Enrico (detto Chicco) Galmozzi, uno degli esponenti più in vista della dirigenza dell'organizzazione armata Prima linea e tra i suoi fondatori.


Qualcuno mi ha chiesto la differenza fra Prima Linea e le Brigate Rosse.
Lasciando perdere le differenze ideologiche (loro marxisti-leninisti e noi una accozzaglia di riferimenti presi da tutte le esperienze più residuali e perfino eccentriche della storia rivoluzionaria) la principale distinzione consisteva nel fatto che noi non intendevamo essere un Partito. La nostra ambizione era di essere la prima linea dei movimenti di lotta, il loro braccio armato, una sorta di sviluppo dei “servizi d'ordine”. L'unica funzione che ci arrogavamo, se mai, era quella di fornire elementi di teoria e prassi per l' auto-organizzazione proletaria di combattimento.
A parte Sergio Segio, che è nato clandestino e già nei primi anni '70 al bar beveva il caffè stringendo la tazzina fra le nocche dell'indice e del medio per non lasciare le impronte digitali, tutti i militanti di Prima Linea venivano dai movimenti di lotta di massa e a quelli facevano riferimento.
Non scrivevamo “direzioni strategiche” e non ci sentivamo minimamente dirigenti di alcunché: per noi, nella nostra visione utopica, la direzione del processo rivoluzionario spettava all'intelligenza collettiva del movimento...
E poi... cosa potevamo dirigere...eravamo ragazzi...credo che l'età media non arrivasse ai 25 anni...
Come a tutti i ragazzi ci piaceva la musica, fare festa, ai maschietti piacevano le femminucce e alle femminucce i maschietti (ecco una differenza profonda: in Prima Linea le donne erano numerose praticamente quanto i maschi). Insomma eravamo ragazzi...pieni di sogni e di spirito di avventura come tutti i ragazzi..di diverso forse solo che noi non avevamo paura di un cazzo...
Di tutta la storia mi piace ricordare il senso di appartenenza a una comunità: infatti anche quando abbiamo perso, e nonostante che abbiamo avuto anche noi un sacco di pentiti, alla fine, anche da sconfitti, siamo riusciti a organizzare una delle più spettacolari evasioni di massa della storia......


domenica 1 agosto 2010

Diceva Pascal: «Burlarsi della filosofia è già fare filosofia»

Da: Umberto Galimberti, Lettere a Umberto Galimberti - Mass media e contraddizioni esistenziali, in "D", 31 luglio 2010, p. 114.


[...] Sappiamo tutti che il pensiero, la riflessione, l'atteggiamento critico non trovano molti seguaci, perché i più hanno disertato quella curiosità infantile che, nell'età dei "perché", formula domande che senza difficoltà possiamo chiamare "scientifiche" o "filosofiche": «Perché se la terra è rotonda e gira, noi non cadiamo?», «Perché le stelle stanno appese in cielo?», «Come fa Dio a esistere se non ha una mamma?».
Nel tentativo di orientarsi nel mondo i bambini, anche senza saperlo, cercano di eliminare le contraddizioni, di trovare nessi di causalità e, non accontendandosi delle risposte fugaci e frettolose degli adulti, insistono. Questo per dire che il pensiero, la riflessione, l'atteggiamento critico non sono prerogative dei filosofi o degli scienziati, ma esigenze di tutti gli uomini che rifiutano di vivere a propria insaputa o in un mondo confezionato da altri.
Accade però che il pensiero comporta una certa fatica, per cui molti si stancano di domandare e preferiscono muoversi in un mondo costruito dalle risposte degli altri. Chiamano queste risposte confezionate "realtà" e "masturbazioni mentali" ogni spunto di riflessione. [...]

sabato 31 luglio 2010

Università la lunga storia della catastrofe

Guido Crainz
Università la lunga storia della catastrofe
"La Repubblica", 28 luglio 2010

È molto difficile riflettere sulla parziale riforma universitaria oggi in discussione senza fare i conti con la storia lunga che le sta alle spalle e che chiama in causa, insieme, responsabilità del ceto politico e del mondo accademico. Una storia in cui, come in Assassinio sull'Orient Express di Agatha Christie, non vi è un unico colpevole: alla fine tutti i possibili imputati appaiono in varie forme responsabili. Viene talora evocato il fantasma del '68, ma la Francia gollista, ad esempio, rispose subito al "maggio" con la legge Faure, che avviò una modernizzazione reale degli atenei. Nulla di tutto ciò avvenne da noi, e la riforma in discussione alla vigilia del '68 - la inadeguata legge Gui - era stata affossata non tanto dalla protesta studentesca quanto dall'ostruzionismo conservatore dei "deputati-baroni", fieri oppositori della incompatibilità fra docenza e mandato parlamentare, e dell'introduzione del tempo pieno. Ancora al '68 viene talora attribuita la liberalizzazione dell'accesso a tutte le Facoltà, sin lì condizionato - in modo talora anacronistico - dalla scuola frequentata in precedenza. Anche questo non è proprio esatto: nel progetto governativo originario la liberalizzazione era prevista come conseguenza della riforma delle scuole superiori. Nella difficoltà di realizzarla la maggioranza introdusse poi senza alcun "filtro" e premessa una liberalizzazione che - così praticata - avrebbe introdotto più di un guasto. Inizia allora quel depauperamento dei livelli di studio che è stato sottolineato su queste pagine da Carlo Galli. Inizia, anche, un aumento abnorme degli studenti che non riescono a laurearsi o si laureano in tempi molto lunghi, uno dei dati più negativi del nostro ordinamento. In tutto questo il '68 non pare il principale responsabile, e proprio nel periodo immediatamente successivo ad esso il timore di nuove fiammate favorì un progetto governativo realmente innovativo, presentato con competenza e intelligenza dal socialista - di derivazione "azionista"- Tristano Codignola (alla sua scomparsa un commosso ricordo di Beniamino Placido ne evocò la "tristezza del riformista", alimentata dai pesanti ostacoli incontrati nel suo lungo lavoro). In quel progetto, frutto anche di un ampio confronto pedagogico e politico, diventavano centrali i Dipartimenti e i corsi di laurea, scomparivano le Facoltà tradizionali, si delineava la figura del "docente unico", gli studenti avevano consistenti rappresentanze e spazi di autonomia, e così via. Approvata al Senato ma insabbiata nel 1971-72 alla Camera dalla resistenza di ampi settori della Dc (e naturalmente dei potentati accademici) quella legge venne poi definitivamente affossata, e iniziò allora un lungo sonno. In assenza di regole definite si moltiplicarono figure intermedie e precarie sia di docenti che di "borsisti" o "assegnisti", cui avrebbe dovuto porre argine la "legge 382" del 1980. In essa la proclamata "unitarietà della figura docente" era subito contraddetta dalla distinzione fra ordinari e associati: e per chi aveva già qualche forma di docenza era previsto un giudizio di idoneità ad associato che rigonfiò immediatamente gli organici. Gli aspetti più innovativi avrebbero dovuto riguardare il reclutamento dei giovani ed avere come cardini i dottorati di ricerca e l'istituzione del ruolo di ricercatore, destinato a sostituire la precedente pletora di figure sottoposte all' arbitrio del "barone". Figure che entrarono però tutte o quasi nel nuovo ruolo - anche qui con un giudizio di idoneità molto simile ad un' ope legis -, e anche questo frenò per molti anni il ricambio. L'autonomia del ricercatore era comunque affermata, ma questo è uno degli aspetti che la riforma Gelmini mette in discussione, come ha sottolineato bene Benedetta Tobagi (mentre i dottorati sono da tempo in crisi, e non solo per le ristrettezze finanziarie): i nuovi ricercatori saranno assunti a tempo determinato e potranno rimanere nell'Università solo vincendo un concorso da associato entro 6 anni (termine poco credibile, nel panorama attuale: è il preannuncio di future ope legis?). L' "innovazione" rischia così di reintrodurre o favorire nuove forme di subalternità e vecchi difetti senza alcuna motivazione reale. Oggi si diventa ricercatori dopo un percorso difficile e segnato da una dura concorrenza, anche se condizionato sin qui dalle dinamiche dei concorsi locali: non vi è comunque un grandissimo rischio che un giovane giunto in questo modo all'Università si trasformi nel "fannullone" paventato da Brunetta o dal rettore Frati. Permangono semmai gli ultimi residui di una situazione precedente, ed anche per scongiurare il suo ripresentarsi è necessaria invece una idoneità nazionale, così come lo è per le altre fasce (con modalità volte a ridurre, perlomeno, l' influenza delle "cordate" o lobby). Ed è necessario favorire la progressione dei ricercatori - su cui grava oggi molta parte della didattica con la via maestra di concorsi nazionali regolari e seri. Inutile nascondere, inoltre, che nella situazione concreta il pensionamento dei docenti a 65 anni è la premessa quasi obbligatoria - anche se certo discutibile e non sufficiente - di un ricambio reale. Fermo restando, naturalmente, che non vi può essere nessuna riforma dell' istruzione senza investimenti significativi. Vi è però qualcosa che manca, nella discussione di oggi: manca una idea, una prospettiva di fondo che riguardi, insieme, l'Università e la società. Eppure un'idea generale era riconoscibile anche nel "progetto Berlinguer" che portò all' ordinamento attuale, il "3+2". Vi era l' esigenza di una formazione che ponesse attenzione ai livelli conoscitivi di partenza e al tempo stesso prevedesse incentivi alla specializzazione e all'approfondimento. E vi era il bisogno di superare un' organizzazione didattica ormai sclerotizzata. I guasti principali indotti da quella legge non erano in realtà inscritti in essa ma sono stati il frutto del malgoverno, dell' inadeguatezza e dell' insensibilità ai nodi della didattica di larga parte del corpo docente: di qui la frantumazione e la moltiplicazione delle materie e dei corsi, lo svuotamento della tesi di laurea, l'assenza di una riflessione su nuove modalità di insegnamento e sul profilo del nuovo biennio specialistico, e così via. Per questo, anche, sono mancati quei sostegni e quegli orientamenti didattici - all' ingresso sia della laurea triennale che di quella specialistica - che pure erano considerati essenziali nell' ispirazione della legge. Ancora alla concreta realtà accademica rimandano infine i fallimenti dei tentativi sin qui fatti di riformare i concorsi (i concorsi locali erano nati come rimedio, che si è rivelato pessimo, ai riconosciuti difetti dei concorsi nazionali). E ad essa rimanda, anche, la sostanziale indifferenza con cui vengono normalmente accolte denunce pur documentatissime e pesanti. In altri termini, l' urgenza di un ricambio radicale nasce in primo luogo dal fatto che una parte consistente dell' attuale corpo accademico ha dimostrato di non essere facilmente "riformabile".

venerdì 30 luglio 2010

2. Il vero successo della «strategia della tensione» (all'interno del capitolo: XI. Gli anni della «strategia della tensione»).

[...] Con piazza Fontana inizia quella che è stata chiamata la «strategia della tensione»: un inasprimento «forzato» dello scontro sociale volto a spostare a destra l'opinione pubblica prima ancora che l'asse politico; e volto a costruire le basi per «governi d'ordine», se non presidenzialismi autoritari o aperte rotture degli assetti costituzionali. Gli attori di quella strategia di più lungo periodo - fatta di attentati terroristici, di aggressioni squadristiche o di un uso illegittimo degli apparati dello Stato - sono già tutti all'opera nella strage di Milano e nella gestione dell'inchiesta giudiziaria e dei processi. Vi è inoltre un elemento che rende «unica» la strage del 12 dicembre: essa è la sola ad essere attribuita per lungo tempo alla sinistra, o a gruppi che ne fanno parte. Inoltre, proprio grazie alla «battaglia di verità» su piazza Fontana, questa sarà anche l'ultima volta in cui la «versione ufficiale» - di questure, magistrature inquirenti e governi - sarà automaticamente accettata dal paese, o dalla gran parte di esso. Questa «unicità» spiega perché si siano introdotte allora modificazioni profonde negli orizzonti culturali, prima ancora che nello scontro sociale e politico. [...]
E' in questo clima che lo squadrismo neofascista lancia l'offensiva più seria mai tentata nell'Italia repubblicana, con protagonisti diversi e con connessioni differenti: dai militanti del Movimento sociale italiano alla nebulosa dei gruppi semiclandestini o clandestini; e sino a uomini variamente presenti all'interno dell'esercito, dei servizi, dei più diversi apparati dello Stato. Nel clima che abbiamo evocato, esasperato in modo parossistico dalla stampa di destra (da «La notte» a «Il Tempo», e naturalmente a "Il secolo d'Italia"), le aggressioni verso sedi e militanti di sinistra - o presunti tali - raggiungono grande intensità. Il peso della destra negli episodi di violenza - secondo un documentato studio - è pari al 95% tra il 1969 e il 1973, all'85% nel 1974 e al 78% el 1975 [1]. Anche la ricerca coordinata da Marco Galleni fa cogliere da vicino il crescente dispiegarsi delle violenze contro persone o cose compiute dai gruppi neofascisti: dalle 148 del 1969 (contro le 10 attribuite alla sinistra) alle 286 del 1970, sino alle 460 del 1971 [2]. Nell'autunno del 1971 la giunta regionale lombarda presenta i risultati di una propria indagine: vi sono stati 400 episodi di violenza fascista nella regione dal 1969, uno ogni due giorni [3]. Di lì a poco, bombe rivendicate dalle Sam (Squadre d'azione Mussolini) colpiranno l'abitazione del procuratore generale di Milano Luigi Bianchi d'Espinosa, che aveva avuto l'ardire di incriminare il segretario del Msi Giorgio Almirante e altri dirigenti del partito per ricostituzione del partito fascista. E' il periodo in cui Almirante chiama allo scontro «anche fisico» con i comunisti [4] e vari documenti confermano l'azione paramilitare di strutture specifiche del Msi e delle sue organizzazioni giovanili. [...]
Nei giorni e nei mesi successivi al 12 dicembre l'escalation di violenza neofascista è segnalata dagli stessi prefetti: da Palermo a Trieste, da Napoli a Brescia, da Trento a Bergamo, da Torino a Cuneo o a Varese (ove inizia una delle attività squadristiche più intense). Nello stesso torno di tempo sono esponenti neofascisti a cavalcare la rivolta più eversiva di quegli anni, quella di Reggio Calabria: vicenda a sé, certo, ma tale da galvanizzare comunque le manifestazioni missine di tutta Italia [5]. Si lasci da parte, per ora, la rivolta di Reggio, e si lascino da parte anche i segnali che trapelano su azioni estreme, e sin sul golpe che Junio Valerio Borghese tenterà a dicembre: con risvolti farseschi ma con meno farseschi collegamenti con settori dei servizi segreti e delle forze armate. [...]
E' però Milano la città in cui lo squadrismo si presenta con più virulenza. Il quadro tracciato dall'inchiesta condotta dalla Regione è confermato anche dai rapporti prefettizi, che pur si limitano ai casi più gravi: anch'essi segnalano un crescendo continuo di aggressioni, sino agli episodi che costellano la campagna elettorale del Msi. Si legga quello relativo al comizio in piazza Duomo del segretario del partito Almirante, il 24 maggio 1970, cui parteciparono tremila missini:
At termine comizio partecipanti, nonostante ogni preventivo avvertimento organi polizia improvvisavano corteo con inni fascisti portandosi ottagono galleria ove inscenavano violenta gazzarra anche con lanci bottiglie molotov et petardi provocando reiterati interventi forza pubblica predisposta. Da quel momento dimostranti frazionatisi in gruppi di varia consistenza ma non inferiori at due o trecento persone davano luogo ad azioni di guerriglia e gravi disordini in vasta area centro cittadino [6].
Poco dopo, il prefetto comunica che - a seguito di «reiterati episodi di violenza» - la questura ha inoltrato alla magistratura «documentati rapporti intesi evidenziare pericolosa attività maggiori esponenti di organizzazioni neofasciste facenti capo at nota associazione "Giovane Italia"» [7]. Altri rapporti segnalano una costante presenza di neofascisti organizzati fra la sede della Giovane Italia e piazza San Babila, in pieno centro di Milano [8], con continue aggressioni e periodiche spedizioni verso i luoghi di ritrovo del movimento studentesco [9]. Dal canto suo, il «comitato per la difesa dell'ordine repubblicano» (che comprende tutti i partiti, ad esclusione del Msi) denuncia il succedersi per mesi di «atti di teppismo, aggressioni, devastazioni compiute da alcue decine di mercenari, squallidi individui prezzolati [...] tollerati dalla polizia che li lascia agire in armi e aggredire sotto i propri occhi» [10].
Questo dunque è il quadro [...].


1 D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna 1984, p. 25; [...].
2 Rapporto sul terrorismo, a cura di M. Galleni, Milano 1981.
3 Cfr. Violenze fasciste: una ogni due giorni, 400 episodi dal 1969 ad oggi, in «Il Giorno», 22 ottobre 1971. Cfr. inoltre Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia, testo integrale della Commissione d'inchiesta nominata dalla Giunta della Regione Lombardia, Roma, 1975; [...].
4 Almirante a Firenze chiama allo scontro «anche fisico» con i comunisti, in «Il Giorno», 6 giugno 1972.
5 «Battipaglia, Reggio, a Milano [o a Roma, ecc.] sarà peggio», si grida nelle manifestazioni missine.
6 Rapporto del 24 maggio 1970 [...].
7 Cfr. il rapporto del 24 giugno 1970 [...].
8 Presidente della Giovane Italia milanese, in questo periodo, è Ignazio La Russa: cfr. «Il Secolo d'Italia», 5 e 10 marzo 1971. Nel 1971 - sempre secondo «Il Secolo d'Italia», 10 marzo 1971 - della Direzione provinciale giovanile del Msi e del «comitato di coordinazione» fanno parte fra gli altri, oltre a La Russa, Gianluigi Radice (segretario provinciale, arrestato e processato diverse volte per aggressioni e scontri con la polizia, sino all'arresto che lo colpisce dopo l'assassinio dell'agente di polizia Antonio Marino), Nestore Crocesi (arrestato nel 1970 per l'assalto alla federazione del Pci di Brescia, colpito da mandato di cattura nel 1972 per gli attentati delle Sam-Squadre d'azione Mussolini ecc.) e altri ancora. Gli articoli citati sono riprodotti nel Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia cit., pubblicato dalla Regione, sul quale mi baso anche per le altre informazioni.
9 [...] Un massiccio tentativo di assalto all'Università Statale è messo in atto a febbraio: cfr. Dopo una manifestazione «europea» volevano assalire la Statale. Con cariche e lacrimogeni dispersi i fascisti, e G. Bocca, A proposito del raduno neonazista di Milano. In attesa degli spostati, in «Il Giorno», 2 e 4 febbraio 1970; cfr. inoltre Anarchici in centro, i fascisti alle armi, ivi, 24 marzo 1970; I fascisti scatenati devastano il centro, ivi, 25 maggio 1970; [...].
10 Il testo del comunicato è in Basta con i fascisti al centro della città, in «Il Giorno», 18 giugno 1970. E' una realtà documentata da molteplici testimonianze: «i fascisti stazionano [...] a piazza San Babila e in corso Monforte [...], pestano i "rossi" riconoscendoli dalla barba e dai jeans, insultano chi rifiuta la loro stampa [...]; e lì, agli angoli della piazza, ci sono i jeeponi della Celere con su i poliziotti immobili, che non vedono e non sentono»: G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-80, Milano 1981, p. 53; cfr. inoltre Cederna, Pinelli, p. 29.


Da: Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, pp. 368-373




L'inizio di "Sbatti il mostro in prima pagina" di Marco Bellocchio del 1972.
Ignazio La Russa a Milano in una manifestazione della "Maggioranza silenziosa" (sono presenti bandiere italiane con lo stemma dei Savoia perchè di tale organismo anticomunista facevano parte anche i monarchici):
"Gli italiani che non hanno rinunciato all'appellativo di uomini si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute, al di sopra dell'ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo, si uniscano per dire sì alla libertà dell'ordine. Questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell'Italia, e insieme lo faremo. Viva l'Italia!"

mercoledì 28 luglio 2010

Prima linea a Firenze

Vi sfodero la prima pagina dell'introduzione alla mia tesi di laurea.


La presente ricerca si propone di indagare l’attività svolta a Firenze dall’organizzazione combattente Prima linea nel periodo compreso tra il 1977 e il 1979.
L’intendimento principale è stato quello di effettuare, attraverso lo spoglio di una fonte giornalistica, una ricostruzione cronologica dell'operato della formazione armata suddetta. La fonte ritenuta più confacente allo scopo prefissato è stata individuata nel quotidiano “La Nazione”.
Il movente che ha indirizzato verso la scelta di tale tematica è stato lo scorgere, nell’ambito della storiografia sulla lotta armata, una serie di lacune su tutta quell’esperienza di violenza politica organizzata non riconducibile a una matrice brigatista. La riflessione critica, infatti, su ciò che è stato in Italia il fenomeno terroristico negli anni Settanta del Novecento, è stata a lungo monopolizzata da un’attenzione quasi esclusiva alla storia delle Brigate rosse, trascurando colpevolmente “l’altra lotta armata”, vale a dire quella pratica armata definibile “movimentista” (scaturita cioè dal movimento e che a esso faceva riferimento). Mancando un’analisi sistematica, il che si riscontra nell’assenza di testi storiografici esaurienti, la conoscenza di Prima linea, e quindi la sua comprensione, viene a risultare poco accurata. Le uniche monografie di cui disponiamo, vale a dire il volume di Giuliano Boraso, “Mucchio selvaggio”[1] e i due lavori di Sergio Segio, “Miccia corta”[2] e “Una vita in Prima linea”[3], non possono essere accolte se non senza riserve. La pecca principale dell’opera di Boraso è il fatto che nel testo non venga affrontata una riflessione metodologica e di critica delle fonti, facendo sì che la trattazione risulti viziata da luoghi comuni e linee interpretative poco solide. Gli elaborati di Segio appartengono invece al genere memorialistico, e come ogni testimonianza autobiografica applicata alla ricerca storica, pongono necessariamente complesse problematiche metodologiche. Nicola Tranfaglia, a questo proposito, ci prospetta, nella prefazione a un testo che raccoglie memorie di ex-militanti, le criticità nell’utilizzarle quali fonti della ricostruzione storica:
La testimonianza è una fonte che deve essere letta con particolare cautela sia perché, sia pure di frequente, in maniera del tutto inconscia, può esserci un intento di giustificazione, sia perché i fatti a cui la testimonianza si riferisce sono accaduti, almeno in parte, alcuni anni fa e la successiva critica compiuta dai testimoni può per qualche aspetto aver sbiadito e reso opaco il ricordo di quel passato[4].
L’approssimazione interessa persino la semplice ricomposizione circostanziata della “prassi rivoluzionaria”, portata avanti, nei pochi ma densi anni in cui è stato attivo, dal raggruppamento armato. In questo ammanco finanche dei dati più basici, sulla scorta dei quali poter poggiare una meditazione fondata, si è scorto un margine praticabile di intervento. Tramite lo spoglio della fonte giornalistica quotidiana, si è voluto provvedere a ricomporre le azioni armate compiute prevalentemente nel contesto fiorentino, ma con una prospettiva dischiusa anche al quadro nazionale.
L’aspirazione di fondo che ha permeato la realizzazione del presente elaborato, è stata quella di poter contribuire, sia pur in modesta parte, alla ricostruzione, ergo alla comprensione, della complessità degli anni in cui, da parte di settori minoritari interni al mondo di sinistra, venne esperita la via della lotta armata quale strumento per la trasformazione del presente.


1 G. Boraso, Mucchio selvaggio, Roma, Castelvecchi, 2006.
2 S. Segio, Miccia corta, Roma, DeriveApprodi, 2005.
3 Id., Una vita in Prima linea, Milano, Rizzoli, 2006.
4 D. Novelli - N. Tranfaglia, Vite sospese, Garzanti, Milano, 1988, p. 12.

martedì 27 luglio 2010

Le ultime (due) lettere di Aldo Moro. Davvero le ultime.

96. Alla moglie Eleonora [1]

Tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche [2] contro la D.C. Luca no al funerale [3].

Mia dolcissima Noretta,
dopo un momento di esilissimo ottimismo [4], dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo [5], al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. E' sua va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E' poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare [6]. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un'unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo


1 Recapitata il 5 maggio, insieme con la successiva, da don Mennini, ma la data di stesura potrebbe essere antecedente. Non è presente tra i dattiloscritti ritrovati nell'ottobre 1978, né tra le fotocopie dei manoscritti di dodici anni dopo. L'originale è riprodotto negli
Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. E' lettera autonoma dalla seguente. Lo stesso giorno, qualche ora prima, il comunicato n.9 delle Br annunciava: «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Divulgata il 13 settembre 1978 dal «Corriere della Sera», p.6, ma fu pubblicata per la prima volta integralmente e in modo autonomo dalla successiva, in Aldo Moro, L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, pp. 427-28.
2 Si distingue una
«t» corretta: forse in precedenza aveva scritto «politiche».
3 E' il solito esergo aggiunto posteriormente nello spazio residuo del foglio.
4 Questa espressione non sembra essere giustificata dai toni sicuri delle due versioni della lettera a Zaccagnini e soprattutto del perentorio argomentare delle pagine finali del "Memoriale", che non sono certo il prodotto di un «esilissimo ottimismo».
5 Il prigioniero, rispetto alla lettera successiva, «crede» ancora, cioè non è del tutto sicuro di morire: in 55 giorni sarebbe questa la terza volta in cui vive un simile stato emotivo di imminente minaccia di morte.
6 A proposito di questa raccolta di firme, Guerzoni ha testimoniato in Commissione stragi, il 6 giugno 1995: «L'onorevole Moro chiese la raccolta di cento firme per convocare il Consiglio Nazionale e noi arrivammo a ventinove, a quel punto dissi che non avrei più collaborato per cercare le firme, perché non volevo che l'onorevole Moro rimanesse alla storia come colui che aveva determinato la rottura formale del partito. A mio parere infatti l'onorevole Moro non voleva la rottura del partito; semmai che venissero in evidenza delle contraddizioni. Tanto più ero convinto di questo, perché sapevo che egli non sarebbe mai tornato e che quindi oltretutto avremmo fatto delle operazioni di significato storico che non servivano nemmeno a salvarlo». Secondo la testimonianza di Vittorio Cervone, fra i promotori nel 1968 della corrente democristiana "Gli amici di Aldo Moro", il 9 maggio, alle 13, i principali esponenti del gruppo, erano riuniti a pranzo al ristorante il «Barroccio» e stavano decidendo di chiedere la convocazione del Consiglio nazionale della Dc, quando furono raggiunti dalla tragica notizia del ritrovamento del cadavere dell'uomo politico (Vittorio Cervone, Ho fatto di tutto per salvare Moro, p. 44).


97. Alla moglie Eleonora
¹

Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza², giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue.
Prega per me, ricordami soavemente Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti
Aldo

1 Recapitata il 5 maggio tramite don Mennini, ma la data di stesura potrebbe essere antecedente. L'originale è riprodotto negli Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Fu pubblicata per la prima volta in Aldo Moro, L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, p. 427.
2 Anche qui si noti che
«esile speranza» non giustifica la perentorietà dei toni usati da Moro nelle lettere a Zaccagnini e nelle ultime pagine del "Memoriale".


Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 177-179

9 maggio 1978 - via Caetani, Roma (Gianni Giansanti)

lunedì 26 luglio 2010

Per me, è finita.

67. Alla moglie Eleonora¹

Mia dolcissima Noretta,
credo che questa sia proprio l'ultima. Per ragioni misteriose mi sembra preclusa qualsiasi speranza. Non si sa neppure approssimativamente, che cosa accada, in che si concludano le varie inziative delle quali [una] volta [...] si parla. Il Papa non può fare niente neppure dimostrativamente, in questo caso? Perché avevamo tanti amici, a schiere. Non una voce ch'io sappia, si è levata sin qui. Di voi ho ricevuto la sola lettera del "Giorno", che volevo portare sul petto, così per farmi compagnia, all'atto di morire². Ma si è perduta nel pulire la prigione. Per quanto abbia chiesto, non ho saputo altro. Quasi pensavo di aver fatto qualcosa di vergognoso. Ma è il meccanismo, deve essere così. Ed a voi devono avere consigliato (proibito) di fare qualsiasi protesta, che non sarebbe servita a nulla, ma avrebbe dimostrato che io qualche persona cara l'ho ancora. E' stato tutto freddamente determinato ed io sono stato trattato, come se solo mi fossi servito della D.C. Ma non hanno nemmeno un momento esaminato la situazione, per vedere che cosa era opportuno fare, salvare il salvabile, capire. Una spaventosa improvvisazione. Per me, è finita. Penso solo a voi e, se non sono oppresso fino alla follia, vi richiamo, vi rivedo, da grandi e da piccoli, da anziani e da giovani. E tra tutti il dilettissimo Luca con cui passo ancora i momenti disponibili. E poi il dubbio della vostra salute, la ragione del vostro silenzio. Spero che Freato e Rana vi seguano. I nostri dopo 40 giorni si saranno un po' abituati, ma dimenticati, spero, no. Se a Torrita non venite, comincia col tenermi a Roma, o nella chiesa di Torrita. Abbracciameli tutti tutti, uno ad uno, ogni giorno, come avrei fatto. Ricordatemi un po', per favore. Io sono cupo e un po' intontito. Credo non sarà facile imparare a guardare e parlare con Dio e con i propri cari. Ma c'è speranza diversa da questa? Qualche volta penso alle scelte sbagliate, tante; alle scelte che altri non hanno meritato. Poi dico che tutto sarebbe stato eguale, perché è il destino che ci prende. Mentre lasciamo tutto resta l'amore, l'amore grande grande per te e per i nostri, fatto di tanta incredibile e impossibile felicità. Che di tutto resti qualche cosa. Ti abbraccio forte, Noretta mia. Morirei felice, se avessi il segno di una vostra presenza. Sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla.

Dio ti benedica con tutti
Aldo

¹ Non recapitata. Ritrovata come fotocopia di manoscritto nell'ottobre 1990 (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia). Scritta intorno al 25 aprile come si deduce dal riferimento ai quaranta giorni di prigionia trascorsi.

² Il riferimento dovrebbe essere alla lettera pubblicata ne «Il Giorno» il 7 aprile, perché della lettera scritta il 26 aprile dai familiari sostiene di non sapere ancora nulla. Secondo il giornalista de «L'Espresso» Mario Scialoja questo brano sarebbe un ulteriore segnale dell'esistenza di un canale di ritorno in quanto considera inverosimile che Moro volesse portarsi al petto «all'atto di morire» una semplice pagina di giornale (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, audizione del 14 marzo 2000).


Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 123-124.

domenica 25 luglio 2010

Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.

34. Alla moglie Eleonora [1]

Mia dolcissima Noretta,
credo di essere giunto all'estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi, per i quali mi ero ripromesso di scriverti, sono falliti. Il rincrudimento della repressione, del tutto inutile, ha appesantito la situazione. Non sembra ci sia via d'uscita. Mi resta misterioso, perché è stata scelta questa strada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio. Già ora si vede che vuol dire non avere persona capace di riflettere. Questo dico, senza polemica, come semplice riflessione storica. Ora vorrei abbracciarti tanto e dirti tutta la dolcezza che provo, pur mescolata di cose amarissime, per avere avuto il dono di una vita con te, così ricca di amore e di intesa profonda. Dio sa quanto avrei sperato di accompagnarvi ancora un poco, di dare custodia ed aiuto all'amatissimo Luca, di aiutare tutti a superare le prove del duro cammino. Ho tentato tutto ed ora sia fatta la volontà di Dio, credo di tornare a voi in un'altra forma. Non mi so immaginare onorato da chi mi ha condannato. Ma fa [2] tu, con spirito cristiano e senso di opportunità. Vi ho affidato a Freato e Rana per ogni necessità ed ho fiducia che Iddio vi aiuti. Tu curati e cerca di essere più tranquilla che puoi. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo. Ho scritto a tutti per Luca, perché siano impegnati per lui. A te debbo dire grazie, infinite grazie, per tutto l'amore che mi hai dato. Amore un po' geloso che mi faceva innervosire, quando ti vedevo «sprofondata» [3] in un libro. Ma amore autentico che resterà. Io pregherò per te e tu per me. Che Iddio aiuti la cara famiglia. In estate, al mare, fatti fare compagnia dalla famiglia Riccioni per te e per il piccolo. Ho lasciato il mio archivio a Luca da vendere tramite il Sen. Spadolini e il Dott. Guerzoni per costituire un piccolo peculio che lo aiuti a mantenersi nella vita. Ho dimenticato di dire, ma tu dillo a Guerzoni che per le foto i familiari e gli esecutori testamentari scelgano quelle che vale la pena di conservare alla famiglia. Nel magnetofono più grande, che è nel mio studio, ci sono già raccolte vocette di Luca trasferite da quello tascabile. Si può mano a mano trasferire e completare. Le bobine sono in camera nostra; film e foto sulla scrivania dello studio. Vorrei, come piccolo ricordo, che il biro della mia vestaglia da giorno andasse a Luca che lo amava «e il portacenere a Giovanni», un altro «pennarello» marrone nel comò a Giovanni, un biro uguale al primo sulla chiffonière ad Agnese, mentre Fida e Anna e tu potreste scegliere in quel mobile quel che volete. Sentite Manzari, vedi di fare testamento [4]. Io ne ho mandati due che spero siano arrivati e rinvierò in copia. Non mancare di fare e far fare la vaccinazione antinfluenzale, se viene la russa. Fatti seguire da Giuseppe [5] anche come amico. Tramite Rana fa controllare la stabilità del tetto sulla nostra stanza «e cura che il gas sia chiuso la sera. (Agnese)». Per la tomba di Torrita [6] «almeno nell'immediato c'è» rischio di sicurezza. Forse converrebbe alloggare altrove, [o su di lì] stesso «o nella chiesa con speciale permesso». Forse, per ora: consigliati con Freato. Chissà quante cose ho dimenticato. State più uniti che potete e tenete unite anche le mie cose con voi, perché sono vostro. Ho pregato molto La Pira. Spero che mi aiuti in altro modo [7].
Ringrazio tutti, tutti i parenti ed amicicon grande affetto. Che Iddio ci aiuti. Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita. Ricordatemi discretamente a Luca con qualche foto e qualche descrizione, che non si senta del tutto senza nonno. E poi che sia felice e non faccia i miei errori generosi ed ingenui.
Ti abbraccio forte forte e ti benedico dal profondo del cuore. A nonna un bacio, nella forma che troverai.
Aldo

¹ Non recapitata. Lettera ritovata solo nell'ottobre 1990 come fotocopia di manoscritto (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia).

² Manca l'apostrofo nella fotocopia del manoscritto.
³ La parola sostituisce un poco comprensibile «spaventato» cancellato.
4 Giuseppe Manzari, amico di Moro dai tempi dell'università e suo consigliere giuridico, ne era stato il capo di gabinetto quando era ministro dell'Istruzione dal 1957 al 1959 e alla presidenza del consiglio dal 1963 al 1968 e dal 1974 al 1976. Allora era presidente della Sezione del Consiglio di Stato e capo del contenzioso diplomatico presso il ministero degli Esteri. Il 21 Gennaio 1977, Moro gli aveva inviato le bozze del testamento suo e della moglie per avere un consiglio da lui (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi).
5 Il riferimento dovrebbe essere ancora a Giuseppe Manzari poiché il raddoppio delle «p» è sufficientemente chiaro. [...]
6 Segue una parola cancellata.
7 Giorgio La Pira, terziario domenicano, professore di Diritto romano, fu uno dei padri costituenti lavorando nella Commissione dei 75 vicino al cosiddetto gruppo dei "professorini" Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati e il più giovane Moro. Sindaco molto amato di Firenze per due mandati dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1965, morì nel 1977 in fama di santità e in suo onore è stata aperta una causa di canonizzazione. Il primo a drizzare le antenne su questo passo, sconosciuto fino all'ottobre 1990, è stato Sofri, L'ombra di Moro, p.41, notando che proprio il nome di La Pira era stato invocato, insieme con quello di don Luigi Sturzo, in occasione di una seduta spiritca, che si tenne il 2 Aprile 1978 in un casolare a Zappolino, nei pressi di Bologna. Come è noto, nella circostanza si erano riuniti per passare il giorno di festa insieme con le loro famiglie, un gruppo di docenti universitari, fra cui Alberto Clò, Mario Baldassarri e Romano Prodi. Nel corso della seduta, avvenuta colo cosiddetto metodo del piattino, emersero in rapida successione le indicazioni di "Gradoli, Bolsena, Viterbo" come luogo di prigionia di Moro. Il 6 aprile la polizia si recò in "accurato perlustramento" nell'omonimo paese del viterbese perché Prodi ritenne opportuno informare del fatto il portavoce di Zaccagnini che, a sua volta, contattò Luigi Zanda Loy, il capo ufficio stampa di Cossiga (Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi). Quando, il 18 Aprile 1978, venne scoperto il covo di via Gradoli a Roma, ove si recava a dormire Moretti nel corso del sequestro, sorsero illazioni, sospetti e curiosità di ogni tipo e perciò l'episodio della seduta spiritica fu gradualmente portato a conoscenza del grande pubblico trasformandosi in un vero e proprio luogo comune del caso Moro e delle sue misteriologie. Non subito, però, perché Prodi, nominato il 28 novembre 1978 ministro dell'Industria, venne interrogato dalla magistratura per la prima volta il 22 dicembre 1978, insieme con Clò. Lo studioso della Rivoluzione francese Georges Lefebvre ha insegnato agli storici ad essere sensibili all'origine delle notizie, al modo con cui iniziano a circolare e si alimentano col trascorrere del tempo. Si segnala, dunque, che il calcio d'inizio pubblico di quest'annosa partita - passata nel corso di oltre vent'anni al vaglio della magistratura e di ben due commissioni di inchiesta parlamentare - dovrebbe essere un articolo del 17 ottobre 1978 di Roberto Martinelli e Antonio Padellaro, "Dov'è il leader dc?", chiesero allo spirito di La Pira. E la risposta arrivò col posacenere: "Gradoli...095", in «Corriere della Sera», p.7, in cui si raccoglievano, tra virgolette, le presunte dichiarazioni di un "professore bolognese", ancora per poco, coperto dall'anonimato.


Criteri di trascrizione

I documenti pubblicati in questa sede sono pervenuti in originale manoscritto (nel periodo 16 marzo - 9 Maggio 1978), in copia dattiloscritta (ritrovati, a Milano, in via Monte Nevoso, il Iº ottobre 1978) e in fotocopia di manoscritto (rinvenuti a Milano, in via Monte Nevoso, il 9 Ottobre 1990). [...] Ho effettuato i seguenti interventi:

- tra parentesi quadre [ ] ho inserito le opportune integrazioni di lettere o parole omesse per evidenti sviste dello scrivente, dei fotocopiatori o nel caso di congetture ritenute altamente probabili;
[...]
- tra parentesi uncinate ho posto le parole scritte fra le righe o aggiunte dall'autore posteriormente fra due vocaboli [per problemi di linguaggio html, al posto delle parentesi uncinate ho utilizzato le virgolette «»];
[...]



Da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. XXVIII, 62-65.