sabato 22 novembre 2008

Linguistica-mente. Ferdinand De Saussure.


Prendiamo il linguaggio. Cominciate con una smorfia. Tendete i muscoli della faccia, torcete le labbra, poi unitele come per fischiare, poi come a soffiare su delle ipotetiche candele (avete tre anni ed è il giorno del vostro compleanno). Poi provate uno sbadiglio, oppure contraete la laringe fingendo di deglutire, o ancora premete la lingua contro il palato. Adesso mettete in moto il respiro e osservate quanti suoni riuscite emettere grazie alla meccanica vocale larige-faringe-lingua-labbra-naso.
Prendete ora i vostri pensieri e mischiateli fino allo stadio antecedente alla loro distinzione gli uni dagli altri: un caos magmatico e informe, il pensiero, senza interno ed esterno, senza categorie, senza io-mondo-cose-concetti. Un caos, come le nuvole. Apeiron. Un tutto indistinto. Non potete pensare niente in realtà, neanche la realtà, perché non c’è niente di definito; una sola massa senza contorni, come le nuvole.
Ecco guardate le nuvole. Avete la voce e le nuvole, l’ugola e la matassa del vostro pensiero indefinibile.
Adesso selezionate, dalla infinita gamma di suoni che vi siete accorti essere in grado di produrre, un articolazione a piacere. Preparate la smorfia, controllate la lingua, tendete le corde vocali e liberate il vostro fonema.
Ecco immaginate che mentre urlate al vento, nell’istante stesso in cui il suono diventa un evento fisico e si diffonde nell’aria con la violenza di qualsiasi cosa reale (come un petardo o una colomba, ma forse si tratta di un bisbiglio), occhi fissi al cielo, una forma prenda corpo, si stagli tra le nuvole col suo confine, la sua pelle, che diventi un sé, identica a se stessa e quindi altro da ciò che la circonda. Un concetto.
La scoperta sarebbe una relazione, immediata, biunivoca, tra il vostro grido e il volto che si dipinge sul caos delle nuvole. Avete definito un concetto, cesellato il pensiero, modulato un suono su della panna montata.
Ora la nuvola è diventata un volto, il volto è un’idea, e l’idea non è che un nome, che non è che un suono. Flatus vocis. Strano il circolo tra la voce e il senso.
Ecco questa relazione tra i suoni e i pensieri, tra l’infinita gamma dei fonemi e quella indistinta dei significati, tra l’ugola e il cielo, è l’essenza del linguaggio. Selezionare arbitrariamente un suono e associarlo ad un concetto.
Ma il concetto divide la realtà, la vostra, inscatolandone una porzione, cui esso si applica, e facendola corrispondere a quel preciso nome che voi avete creato. Esso definisce cioè il vostro modo di guardare il mondo. Le parole sono uno schema. Insomma avete capito? Si tratta di giocare con le nuvole.
Sì ma poi viene la domanda: Ma chi la istituisce questa relazione? E chi ha pronunciato le prime, di parole? E se fosse veramente Adamo che dà i nomi alle cose, dovremmo chiederci perché lo fa in così tante maniere: “Yasmina Melaouah, Manuel Serrat Crespo, Evelyne Passet e alcuni altri dei miei amici traduttori dubitano che “la finestra”, “la janela”, “das Fenster”, “the window” o la “fenetre” indichino esattamente la stessa cosa, poiché nessuna affaccia sugli stessi rumori né si richiude sulle stesse musiche”.
Ora tutto questo discorso forse non è altro che una finzione, per cercare di spiegare l’origine della lingua. E’ una teoria del significato: le parole cercano una via per spiegare se stesse. Ma se la teoria fosse esatta, avreste scoperto un segreto.
Ecco cosa sarebbe il linguaggio: battezzare le nuvole. Sparare suoni per definire concetti.
Riscoprite la potenza di un gioco come Scarabeo. Dovremmo gettare le pedine da un elicottero e vedere cosa succede.

Nessun commento: