sabato 18 dicembre 2010

Le bon Dieu est dans le détail.


“Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?". Tre domande generali:

Da una nota di Umberto Eco su Aristotele (e il suo commentatore Aubenque): “In Poetica 1476b 7 (nota Aubenque) si dice: “Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?. Aubenque (1962: 116) cita una pagina degli Elenchi. Poiché non si possono portare nella discussione le cose stesse,ma dobbiamo servirci dei loro nomi come di simboli, noi supponiamo che ciò che avviene nei nomi avvenga anche nelle cose, come del caso dei sassolini che si usano per contare. Ma tra nomi e cose non vi è completa rassomiglianza, i nomi sono in numero limitato, e così la pluralità delle definizioni, mentre le cose sono infinite in numero (e infiniti sono i loro accidenti)” (Kant e L'ornitorinco, n. 10 p. 390)

1) Bordeaux, Granata, Rosso Geranio, Rosso Cadmio, Rosso Tiziano, Borgogna, Carminio, Sangria, Ruggine, Mattone, Rosso cardinale, Rosso Veneziano, Rosso di Persia, Terra cotta, Castagno, Ciliegia, Corallo, Melograno, Rosso Scarlatto, Vermiglione etc…. Posso percepire tutte le sfumature del rosso se non padroneggio questi concetti? (Per una considerazione del rapporto tra linguaggio e cose, dal punto di vista del dibattito tra filosofi della scienza, vedi il vecchio post)

2) Che rapporto c’è tra il vocabolario che imparo ad usare durante il corso di pittura e la mia capacità d’osservare certe sottili sfumature di colore nelle cose che mi circondano? E - per restare alla moda - tra le parole che apprendo (con molta fatica) ad usare durante il corso di sommelier e la complementare capacità che acquisisco (con analoghi sforzi) di discernere le sfumature di sapore della mia esperienza gustativa?

3) Che ruolo gioca la mia educazione (sviluppo della capacità percettiva ed estensione del mio vocabolario) all’interno dei processi con cui percepisco gli eventi (non solo percettivi, la domanda vale anche per quelli politici e storici, ma è più comodo partire dai casi base)?


Verso una teoria della sfumatura. (De Lillo Vs Calvino, II Puntata. Ciclo dei dialoghi)

"11 gennaio 1955

Talvolta penso che l’educazione che dispensiamo qui sia più adatta a un cinquantenne che ha capito di aver mancato il bersaglio al primo giro. Troppe idee astratte. Verità eterne a destra e a sinistra. Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti. A te in particolare, Shay, visto da dove vieni.
Questo parve rianimarlo. Si sporse sopra la scrivania e fissò, letteralmente, i miei stivali bagnati.
– Sono oggetti orribili, vero?
– Sì senza dubbio.
– Nominami le parti. Coraggio. Qui non siamo così ricercati, non siamo così intellettualmente chic da non poter esaminare uno studente faccia a faccia.
– Nominare le parti, – dissi. – D’accordo. Stringhe.
– Stringhe. Una su ogni scarpa. Procedi.
Alzai un piede e lo girai goffamente.
– Suola e tacco.
– Sì, continua.
Posai di nuovo il piede a terra e fissai lo stivale, che mi parve inespressivo quanto uno scatolone chiuso.
– Procedi, ragazzo.
– Non c’è molto da nominare, le pare? Un davanti e un dietro.
– Un davanti e un dietro. Mi fai venire voglia di piangere.
– La parte arrotondata sul davanti.
– Sei talmente eloquente che devo fare una pausa per riavermi. Hai nominato le stringhe. Come si chiama il lembo sotto le stringhe?
– La linguetta.
– Be’?
– Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.
Padre Paulus fece il suo piccolo numero, buttandosi a corpo morto sulla scrivania e sussultando lievemente come se fosse in preda a una terribile angoscia.
– Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi.
Tentennò il capo come per rimproverarmi aspramente, con un gesto teatrale, e si ritrasse dal piano della scrivania, lasciandosi cadere sulla sedia girevole e guardandomi di nuovo prima di fare un quarto di giro deciso e sollevare la gamba destra quel tanto che bastava perché il piede, o meglio la scarpa, trovasse una sistemazione sul bordo della scrivania, punta all’insù. Una normalissima scarpa da prete nera.
– D’accordo, – disse. – Suola e tacco li conosciamo.
– Sì.
– E abbiamo identificato la linguetta e le stringhe.
– Sì, – dissi.
Delineò con il dito una striscia di pelle che attraversava il bordo superiore della scarpa e scendeva sotto la stringa.
– Cos’è? – chiesi io.
– Dimmelo tu. Cos’è?
– Non lo so.
– È il risvolto.
– Il risvolto.
– Il risvolto. E questa sezione rigida sopra il tacco. Questo è il rinforzo.
– E questo pezzo a metà tra il risvolto e la striscia sopra la suola. Questo è il dorso.
– Il dorso, – ripetei.
– E la striscia sopra la suola. Quello è il guardone.
Ripetilo, ragazzo. – Il guardone.
– Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano. E l’area frontale che copre il collo della scarpa come si chiama?
– Non lo so.
– Non lo sai. Si chiama tomaia.
– Tomaia.
– Ripetilo.
– Tomaia. L’area frontale che copre il collo della scarpa. Credevo di non dover imparare le cose a memoria.
– Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo. E la stringa la fai passare attraverso che cosa?
– Questo dovrei saperlo.
– Certo che lo sai. I buchi su entrambi i lati e sopra la linguetta.
– Non mi viene in mente la parola. Occhiello.
– Forse ti lascerò vivere, dopotutto.
– Gli occhielli.
– Sì. E il rivestimento metallico su ciascuna estremità della stringa?
Diede un colpetto all’oggetto in questione con il dito medio.
– Questo non lo saprei neanche tra un milione di anni.
– L’aghetto.
– Neanche tra un milione di anni.
– Il puntale o aghetto.
– L’aghetto, – ripetei.
– E il piccolo anello di metallo che rinforza il bordo dell’occhiello attraverso cui passa l’aghetto. Stiamo facendo la fisica del linguaggio, Shay.
– L’anellino.
– Lo vedi?
– Sì.
– Questa è la guarnizione, – disse.
– Oddio, ragazzi.
– La guarnizione. Imparala, conoscila e amala.
– Sto andando fuori di testa.
– Questa è la conoscenza arcana definitiva. E quando porto la scarpa dal calzolaio e lui la mette su una forma per fare le riparazioni, un blocco di legno a forma di piede. Come si chiama?
– Non lo so.
– Si chiama semplicemente forma da scarpa.
– Mi si sta spaccando la testa.
– Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila, – mi intimò.
– Quotidiano.

(…)
Mi oltrepassò con lo sguardo, facendo un ragionevole cenno d’assenso, e io mi girai per andarmene. Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano. Questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.


Underworld, Frammenti degli anni ’50 e ’60, pp. 576 – 580 .

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Dettagli del calzolaio, dettagli del falegname.

La terza lezione americana di Calvino è dedicata al valore dell' Esattezza, di cui all’inizio lo scrittore definisce 3 significati. Il terzo significato (della terza lezione) è l'accezione che mi interessa “un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. A tal proposito Calvino riprende un dialogo dalle Città invisibili in cui Kublai Kahn gioca a scacchi con Marco Polo e compara le sue conquiste alle mosse vincenti di una partita.

“La conclusione finale cui lo porta questa operazione - scrive Calvino - è che l’oggetto delle sue conquiste non è altro che il tassello di legno sul quale ciascun pezzo si posa un emblema del nulla…
Ma in quel momento avviene un colpo di scena: Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla:


'Ormai Kublai Kan non aveva piú bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell'impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s'aprono alle incursioni dell'alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell'umile pedone, dalle alternative inesorabili d'ogni partita. Il Gran Khan cercava d'immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d'ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.

Allora Marco Polo parlò: - La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di
siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l'obbligò a desistere -. Il Gran Khan non s'era fin'allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. - Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d'una larva; non d'un tarlo, perché appena
nato avrebbe continuato a scavare, ma d'un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l'albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall'ebanista con la sgorbia perché aderisse al
quadrato vicino, più sporgente...
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli
approdi, delle donne alle finestre...' ”

Da Marco Polo a Calvino :
“Così negli ultimi anni ho alternato i miei esercizi sulla struttura del racconto con esercizi di descrizione, arte oggi molto trascurata. Come uno scolaro che abbia avuto per compito “Descrivi una giraffa” o “Descrivi il cielo stellato” [descrivi una scarpa], io mi sono applicato a riempire un quaderno di questi esercizi e ne ho fatto materia di un libro. Il libro si chiama Palomar ed è uscito ora in traduzione inglese: è una specie di diario su problemi di conoscenza minimali, vie per stabilire relazioni col mondo, gratificazioni e frustrazioni nell’uso del silenzio e della parola”.

III Lezione – Esattezza pp.81 - 83
FINE

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