"Nelle fumanti chicchere
La verso a poco a poco,
E fommi un caro gioco
D’avvolger il liquor,ch’anco rimane,
E aggiugnerlo alla tazza infin, ch’è piena:
Tre o quattro volte appena
Rifò l’opra gradita, Che già la tazza empita,
Sale la dilettosa
Bevanda all’orlo intorno alta e spumosa.
Anela il labbro mio
Di lamir quell’ambrosia, e lento succhia
La chicchera fumante”
Ebbene sì, prima del Millecinquecento i bambini europei non ebbero ancora mai in sorte di assaggiare la cioccolata – perché nessuno sapeva che cosa fosse.
Certo, a quel tempo nessuno (a parte Marco Polo – che lo scambiò per un unicorno) aveva neanche mai visto un rinoceronte, e la stessa cosa vale per i pomodori (nascosti in Perù e riportati da Cortès), ma per quanto riguarda la cioccolata c’è qualcosa di differente.
Provate ad immaginare la vostra infanzia senza uova Kinder, uova di Pasqua, senza torte e Sachertorte, senza “Fabbrica di Cioccolato”, senza il gelato al cioccolato (anche se di Pupo forse si poteva fare anche a meno). A me pare una brutta cosa.
Ora cercate di immedesimarvi nel carattere di un uomo cresciuto in una epoca inconsapevolmente astemia di cacao, come quella medievale ad esempio. Sembra dover trattarsi per forza un bruto, un aspro, irsuto nell’anima...
E se estendessimo la manchevolezza ad un’ intera società priva della sostanza?
Queste le prime domande sollevate dalle mie recenti scoperte in ambito di storia del cacao, su cui qui lascio qualche appunto.
Affermazione del “cioccolatte” e sovrastruttura.
Dunque, la cioccolata, anche sembra strano, prima non c’era (e tra l’altro viene da chiedersi: ma allora cosa facevano gli svizzeri prima del 1500?). Diffuso dagli spagnoli fin dal Cinquecento, il “cioccolatte” arrivò in Italia solo nei primi decenni del nuovo secolo, diventando ben presto una passione irresistibile per nobili, prelati ed uomini di cultura. Almeno dapprima quindi, non un affare per bambini.
Se, come diceva Feuerbach, “l'uomo è quello che mangia”, nel Cinquecento e nel Seicento, almeno da un punto di vista sociale, ciò era pacifico: ad ogni ceto spettavano, di diritto e per natura, determinati cibi e non altri.
Il cibo è sempre stato in tutte le civiltà spia e codice di identificazione del suo consumatore: e non poteva che essere così in un mondo, come quello medievale ma anche quello del Seicento, percorso in modo drammatico dalla fame, dalla sottoalimentazione generalizzata e dalle carestie. Dunque era ovvio che i cibi vili toccassero ai contadini ed ai poveri, mentre l’aristocrazia pasteggiasse con i cibi più preziosi e ricercati, compresa, di diritto, l’esotica chocolatl, che Maya ed Atzechi bevevano amara, considerandola una bevanda raffinata e di lusso.” (Il cacao inoltre veniva utilizzato da questi come valuta di scambio, proprio come da noi si usava il sale, il che, detto di passaggio, riabilita completamente i soldi di cioccolato in involucro dorato che mangiavate da bambini, che in epoca Azteca avrebbero avuto un ben preciso valore nominale)
Così presto la moda della cioccolata e delle altre bevande importate dall’Asia e dalle Americhe si diffuse e arrivò ad influenzare l’immaginario collettivo (e le pratiche alimentari) delle classi nobiliari italiane, delineando i contorni di una nuova cultura del cibo e del bere esotico, che si sposava in pieno con l’ideologia barocca.
Ce lo testimonia la terza edizione del Vocabolario della Crusca, datata 1691, in cui si registra, a dire il vero un po’ in ritardo, l’ingresso nell’uso comune di termini quali cacao, caffè, cioccolata, chicchera.
Il panorama Fiorentino e l’ "identità toscana".
A Firenze i Medici, grazie ai loro “agganci” Spagnoli, furono una delle case regnanti più impegnate nella diffusione e nella celebrazione del “cioccolatte”, rapidamente divenuto un fenomeno di costume.
A Fiorenza esso non solo veniva consumato, ma anche prodotto, nella Spezieria granducale di Boboli, da un gruppo di “odoristi” toscani, tra cui il medico di corte e letterato aretino Francesco Redi e il suo amico letterato “profumiere” Megalotti.
Nel melting pot di Boboli, Redi e il Granduca Cosimo III si impegnavano a sperimentare nuovi tipi di cioccolata, non solo mescolando le varietà di cacao che arrivavano in città per i canali più diversi, ma anche introducendo altri, raffinatissimi (e segretissimi) ingredienti.
Sì perché il significato della produzione marchiata Medici oltrepassava il semplice interesse per la raffinatezza organolettica, assumendo veri e propri connotati politico-cultural-identitari: attraverso la diffusione di precise modalità di preparazione e di degustazione del “nettare messicano” la nobiltà fiorentina intendeva proporre e rivendicare di fronte alle altre, più celebrate e potenti nazioni d’Europa, una precisa identità ‘toscana’, fatta di lusso e di raffinata ‘gentilezza’.
La cioccolata a Firenze non era così solo questione di botteghe o di salotti: era il Granduca stesso che la voleva “fabbricare”, e di un tipo del tutto speciale (anche se poi poteva gustarla solo in dosi ristrette, causa disposizioni del suo archiatra-cuoco aretino – Redi – contro la sua pinguedine ipocondriaca), per gareggiare con i monarchi spagnoli, monopolizzatori dei palati delle Corti europee, in cui circolava una cioccolata preparata secondo la “ricetta del Re di Spagna”. Il Granduca di Toscana voleva fare altrettanto, se non addirittura meglio.
A ciò era preposto il pezzo forte della produzione cioccolatiera fiorentina: la cioccolata al gelsomino, che, a detta degli intenditori, sprigionava aromi e fragranze di delicatezza inimmaginabile.
Di essa scriveva Redi:
“Alla perfezione spagnuola è stato a’ nostri tempi nella Corte di Toscana aggiunto un non so che di più squisita gentilezza, che […] fa un sentire stupendo a coloro che del cioccolatte si dilettano.”
La nuova ricetta della cioccolata all’odore di gelsomino made in Boboli finì così per diventare un affar di stato. Segretissimo, caricato di un valore simbolico-politico, il recipe era blindato a tal punto che oggi affiora solo sottoforma di qualche accenno (e annessa reticenza) nelle lettere di Redi, unico assieme al Megalotti ed a una ristretta cerchia di specialisti “profumieri” a conoscerne le procedure lavorative. Si capisce perciò come anche la degustazione di questa speciale cioccolata poté finire per assumere il carattere di un vero e proprio status symbol che delimitava un circuito ristretto di persone privilegiate gravitanti attorno al Granduca e al rutilante mondo della Corte.
Della ricetta segreta si avrà testimonianza scritta solo nel 1712, quando, cent’anni dopo, oramai nel secolo dei Lumi, essa appare in una nota all’epistolario rediano redatta da un amico (Vallisneri) di un amico (Cestoni) di Redi.
La panacea messicana
Poiché “la gola de moderni”, come scriveva il medico-scienziato-letterato Redi, non aveva limiti, il “cioccolatte”, a causa del suo successo e della sua ampia diffusione, con le annesse implicazioni sociali, divenne presto affar serio.
La discussione su “virtù e vizi” della cioccolata coinvolse in profondità sia il mondo laico che quello religioso, producendo una radicale spaccatura tra “cioccolatieri” e “anticioccolatisti”: tra chi esaltava il “nettare messicano” come un “elisir”, una “panacea”, se non addirittura una “bevanda angelica” foriera di integrazione sociale, e chi invece la definiva un “liquore diabolico” che alimentava il “fuoco della libidine”; tra chi rivendicava nella degustazione di una tazza di cioccolata un gesto simbolico che delimitava un circuito ristretto di persone privilegiate, e chi al contrario ne denunciava il carattere subdolo di una minaccia per le fondamenta stesse del costume e della società cristiana.
Consigli per un’ottima degustazione
La cioccolata, nella Firenze del ‘600, la si trovava sottoforma di “buccheri” (pastiglie da masticare o da bruciare per profumare gli ambienti), “pastiglie” e “morcelletti” o bocconcini.
Il cacao si vendeva in “cilindri rotondi” “tavolette quadrate” “rotelle”, oppure veniva confezionato e trasportato in “bolli”, più comunemente detti “bogli”, cioè tavolette o panetti, come quelli che Redi inviava al Fratello nel 1695: “bogli di cioccolata di gelsomini delle sopraffine”.
Per quanto riguarda la degustazione, per essere à la page nel Seicento, la cioccolata andava assolutamente bevuta “calda, quasi bollente, sorbendola adagio adagio in certe tazzette di maiolica o d’argento, dette all’uso di Spagna chicchere”. Le migliori e preziosissime arrivavano a Firenze direttamente da Madrid.
Alla chicchera poi, come si conviene ad ogni ambiente nobiliare, si aggiungeva un intero arsenale di utensili e pratiche che concorrevano a formare il rito del sorbimento (doppio tovagliolo, tazze di diverse fogge etc. etc.), ovvero “tutto l’attiraglio del cioccolatte”, sontuoso corredo di argenti e porcellane di varie manifatture europee, in particolare quelle di Sèvres e Meissen.
Saperi e sapori
Per il godimento della cioccolata (ma non solo) entravano poi in gioco saperi e tecniche al limite dell’esoterico, riportate a Firenze dal Megalotti, gran viaggiatore e frequentatore dei migliori “profumieri” d’Europa. A lui va attribuita l’introduzione di varie e stravaganti modalità di assaporare bevande e odorare profumi, in puro stile barocco, tra cui ad esempio il nuovo modo di gustare la cioccolata assaporandola nei “giorni ardenti” del solleone ghiacciata nella sorbetteria. Il “superbo cioccolate”, già “terror del crudo inverno”, poté così diventare anche un “vezzo dell’estate”.
(Semmai voleste darvi un tono Barocco dunque, potete mettere i vostri cioccolatini in frigo)
“E’ questa la gradita \ arte di far il balsamo della vita”
Mentre Bruegel dipingeva la novità del rinoceronte (che peraltro non aveva mai visto, perché era affondato nella barca che lo portava dal Portogallo a Roma), a Firenze si cominciò a cantare la squisitezza della cioccolata in versi. I primi tre “orfei del cioccolate” furono il letterato anghiarese Federigo Nomi, il cruscante fiorentino Pier Andrea Forzoni e il gesuita napoletano Tommaso Strozzi. Quest’ultimo così ne scriveva elogiandone ad un tempo le dolci elevatezze organolettiche e le virtù mediche:
“Ed oh! qual brilla/ Sul nero labbro nembo rugiadoso, Qual odoroso/ Fumo le nari mie grato titilla! […] Ed oh! qual gusta allor grato sapore,/ Nuova rugiada ed odoroso fiore!/ A qual gentil palato,/ Qual v’ha più grata ambrosia?/ Qual meglio può lo stomaco/ Sedar, quand’è irritato? “
Le proprietà terapeutiche nel “nettare messicano", balsamo per la vita malferma, che grazie al suo “ambrosio succo” poteva addirittura reintegrare le “perdite della mente logorata”, andavano dunque di pari passo con l’estasi delle papille gustative da esso provocate.
Gli “anticioccolatisti”
La controversia “an chocolates aqua dilutus jeiunium ecclesiasticum frangat” aveva agitato a lungo medici e teologi, prima in Spagna e poi in Italia, già nel corso del Cinquecento.
La spinosa questione su cui verteva il dibattito era la seguente: rompeva o meno la cioccolata il digiuno della Chiesa?
Se si pensa all’atmosfera che si respirava nell’Europa (e nell’ Italia) della Controriforma, (dove, solo per fare un esempio, le ville medicee si erano tutte dotate di laghetto per il pesce fresco, in modo da poter rispettare l’astinenza dalla carne del venerdì), si capisce l’importanza vitale dell’affare.
Se la cioccolata dovesse essere considerata come un alimento, divenne questione di importanza vitale.
Nel 1664 la controversia sembrò essere stata autorevolmente risolta a favore della “opinio negativa” da Francesco Brancaccio il quale, dopo una puntuale analisi degli argomenti pro e contro, aveva concluso che non essendo alimento, una tazza di cioccolata non rompeva il digiuno anche se, di fatto, era nutriente: “licet per accidens nutriret”. Doveva però essere bevuta liquida, non mangiata solida, e la dose non poteva oltrepassare un’oncia di polvere di cacao. Se si seguivano questi dettami, bere cioccolata il venerdì non era peccato.
Nel 1676 tuttavia, proprio mentre “questa quintessenza” si diffondeva arridendo ad alimento simbolico dell’aristocrazia fiorentina, la polemica si riaccese per mano del medico Francesco Felini. Esso era diretto a tutti coloro che non solo bevevano cioccolata ogni giorno, ma anche in periodi di astinenza dal cibo, e pretendevano di legittimare il “vitio di prender la cioccolata in giorno di digiuno”, mettendo così in pericolo non solo il loro corpo, ma anche la loro anima.
Con la sua “Risposta dimostrativa che la cioccolata rompe il digiuno” Felini divenne il portabandiera degli “anticioccolatisti” italiani.
La cioccolata, sosteneva il medico, “profumata d’odori penetranti”, non era affatto adatta a “certe dame” alle quali “per gli odori di questi o per le attioni antipatiche al lor ventre, cagionerebbonsi passioni isteriche”. Essa, con la sua irresistibile “fragranza d’odore”, era solo uno dei piaceri del gusto che la moderna “greggia d’Epicuro” contrabbandava come innocui, ma in verità di trattava di una di quelle bevande che davano l’ebrezza di navigare “in un mar di piacere”, avendo poi come risultato l’ approdo nel “porto del pianto”.
Da un punto di vista scientifico poi, la cioccolata, in virtù della sua natura “oleaginosa e balsamica” non era affatto da considerarsi una “bevanda” né tanto meno un “medicamento”, bensì una “vivanda” vera e propria, tanto più pesante quanto maggiore era la quantità di zucchero impiegata. Essa, dunque, rompeva il digiuno.
A ciò si aggiunga un altro fattore pare altrettanto importante. La proprietà della cioccolata che preoccupava di più il “christiano” cioccolatiere era infatti quella, evidenziata fin dai primi racconti europei sull’uso che delle bevande a base di cacao facevano gli Indiani, di mettere in ebollizione gli spiriti venerei, di alimentare il “fuoco della libidine”, di stuzzicare “gli stimoli della carne”; al punto che, sentenziava il medico, “qualunque si sia il cioccolatiero, vecchio o giovane, huomo o donna”, dopo averne bevuta una sola tazza pare “invasato dallo stesso spirito d’Asmodeo”, tanto è “l’ardore” che gli si accende “nel sangue”.
Non si trattava dunque solo di una bevanda pericolosa per il corpo, ma addirittura “mortifera all’anima” – soprattutto considerando il fatto che gli adepti della cioccolata erano in primo luogo le “dame cioccolatiere”, quelle “cortesissime” gentildonne di ogni parte d’Italia che, “abituate ed avide di bere cotidianamente questo nettare d’India”, “col finto titolo di sovvenire con esso al bisogno della salute corporale” si ingegnavano di “palliare il fine indiretto che hanno in gustarlo”, cioè di “vezzeggiare con essa il corpo e lusingare i sensi e ‘l palato”.
Una droga libidinosa, questa cioccolata, corrutrice dell’anima.
(Attaccarla però, sia detto, era difficile anche per lo stesso Felini, che infatti non cita mai per nome i bersagli della sua polemica, forse per il fatto che tra coloro che facevano professione di cioccolatieri incalliti, erano da annoverare varie eminenze grigie, o meglio, bianche, quali gli stessi papi Pio V e Urbano VII)
“Differenza tra il cibo e ‘l cioccolate”, una questione di definizione.
La replica, anonima (firmata da un certo Giovan Battista Gudenfridi), apparve nel 1677 a Genova.
In apertura di questa “Differenza tra il cibo e ‘l cioccolate” si dichiara che le posizioni a favore della rottura del digiuno pongono come “indubitato un principio assai dubbioso”, quello cioè per cui la cioccolata sia da definirsi come un cibo. Il fatto invece è assai “incerto, oscuro, dubbioso”.
Dei suoi quattro ingredienti fondamentali infatti - pepe, cinnamono, zucchero e cacao – i primi tre erano “puri condimenti”; ed ogni condimento è da considerarsi piuttosto “un puro medicamento, cioè a dire, un contrapposto per diametro al puro alimento”, dal momento che non poteva trasmutarsi mai “in chilo, non mai in sangue, non mai in nutrimento”. Nemmeno il cacao, infine, poteva qualificarsi come “proprio e vero alimento, né pieno, né mediocre, né tenue”.
Di qui la conclusione che la cioccolata “né rompe, né romper può il digiuno della Chiesa, ancorché, a piacere più volte il giorno, si pigli in che quantità e in che misura si vuole, siasi o a modo di cibo, o vero a modo di bevanda”.
Insomma, se siete in periodo di digiuno, potete mangiare 15 chili di zenzero senza commettere peccato, perché lo zenzero non è un alimento, ma un condimento (o spezia, o “droga”). Così, anche la cioccolata, era da concepire come una sorta di zenzero sciolto in acqua.
“Legalizziamola”, dunque, sembrava essere l’esortazione di questi seicenteschi sostenitori della liberalizzazione del “cioccolatte”.
Una buona tazza di cioccolata, tutt’altro dall’essere “fomento della concupiscenza”, riempiva infatti secondo il loro portavoce Gudenfridi “l’arterie, le vene, e ‘l corpo di spiriti vitali, dolci, benigni durevoli e maravigliosamente proporzionati a ogni più sollevata operazione della testa, del cuore e della vita ragionevole”.
E poi, stando a quanto si poteva leggere nella biografia di “S. Rosa, vergine del Perù e religiosa del fiorentinissimo Ordine di S. Domenico”, e cioè il fatto che le era apparso un angelo per offrirle “una coppetta di cioccolate”, bisognava concludere che la cioccolata non era solo un “lattovaro rinfrescativo”, un “nettare generativo di spirito vitale”, ma una vera e propria “bevanda angelica”.
La fisiologia del gusto
“Ogni cosa ha la sua morale, basta trovarla” (Lewis Carrol)
“Ogni cosa ha la sua morale, basta trovarla” (Lewis Carrol)
Dunque, in conlusione, la morale:
1- Ogni cibo che consumate si carica di implicazioni sociali, culturali, teologiche superiori a qualunque vostra aspettativa. Attenzione a quando masticate.
2 - I cavilli definitori sono sempre quelli su cui si giocano le questioni scottanti, tanto sulla vita e la morte, quanto sulla cioccolata e le altre “droghe”: zenzero, origano, cannabis e spezie varie.
Qui si tratta di stabilire il limite tra vivanda (o bevanda) e condimento, che rende non peccaminoso un certo atto oppure lo legittima. La differenza dunque è tra la pepsi (bevanda) e l’aceto (condimento).
Ma se mettete la pepsi sull’insalata, allora siete in regola?
1- Ogni cibo che consumate si carica di implicazioni sociali, culturali, teologiche superiori a qualunque vostra aspettativa. Attenzione a quando masticate.
2 - I cavilli definitori sono sempre quelli su cui si giocano le questioni scottanti, tanto sulla vita e la morte, quanto sulla cioccolata e le altre “droghe”: zenzero, origano, cannabis e spezie varie.
Qui si tratta di stabilire il limite tra vivanda (o bevanda) e condimento, che rende non peccaminoso un certo atto oppure lo legittima. La differenza dunque è tra la pepsi (bevanda) e l’aceto (condimento).
Ma se mettete la pepsi sull’insalata, allora siete in regola?
I teologi si spezzino la testa. Quello che c’è comunuqe da sottolineare è che anche noi oggi siamo a discutere su delle definizioni; sulla misura in cui siano “alimenti”, per rimanere in tema, le pratiche e le sostanze con cui si mantiene in vita una persona in stato vegetativo permanente, o se non siano piuttosto da considerarsi “medicamenti”, o “condimenti” artificiali per la vita di un corpo non più senziente. Discutiamo poi anche sul perché il tabacco ed alcool non rientrino nella categoria delle droghe, nonostante diano dipendenza e alterino la coscienza proprio come la cannabis etc. etc. Sembra, in ogni caso, trattarsi di una questione di definiens, proprio come quelle affrontate dai teologi in ambito cioccolatiero.
3 - Nel 1825 il gastronomo e pensatore francese Jean Anthelme Brillat-Savarin pubblicò in un libro dal titolo "La fisiologia del gusto". Nel capitolo introduttivo ci sono venti aforismi, tra cui, dopo: “Cuoco si diventa, rosticcere si nasce” e: “Un pasto senza vino è come un giorno senza sole”, c’è anche il feuerbachiano: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.
Non so se Savarin avesse letto Feuerbach, o Nietzsche, e le considerazioni sull’alimentazione graminacea degli orientali, sul cristianesimo e l’alcool come i narcotici dell’occidente... comunque il gastronomo pare voler cogliere e sottolineare la relazione essenziale che lega il nostro comportamento alimentare, assai più strettamente di quanto pensiamo, tanto al nostro stato d’animo quanto al ruolo, identità e costituzione sociale della nostra (e di ogni) epoca.
Dunque, se seguiamo Savarin, ci troviamo a dover prendere atto anche del suo aforisma conclusivo:
3 - Nel 1825 il gastronomo e pensatore francese Jean Anthelme Brillat-Savarin pubblicò in un libro dal titolo "La fisiologia del gusto". Nel capitolo introduttivo ci sono venti aforismi, tra cui, dopo: “Cuoco si diventa, rosticcere si nasce” e: “Un pasto senza vino è come un giorno senza sole”, c’è anche il feuerbachiano: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.
Non so se Savarin avesse letto Feuerbach, o Nietzsche, e le considerazioni sull’alimentazione graminacea degli orientali, sul cristianesimo e l’alcool come i narcotici dell’occidente... comunque il gastronomo pare voler cogliere e sottolineare la relazione essenziale che lega il nostro comportamento alimentare, assai più strettamente di quanto pensiamo, tanto al nostro stato d’animo quanto al ruolo, identità e costituzione sociale della nostra (e di ogni) epoca.
Dunque, se seguiamo Savarin, ci troviamo a dover prendere atto anche del suo aforisma conclusivo:
“Il destino delle Nazioni dipende dal modo con cui si nutrono”.
Sulla base di questo io propongo una nuova dieta e filosofia globale del cioccolato, che inizi con un' obbligatoria chicchera fumante al mattino e giunga fino a mettere delle palle di cioccolato negli stessi cannoni, rimpiazzando i fiori sessantottini. (Le palle di Mozart in Austria, o le uova di Pasqua da noi vanno bene comunque; e chissà che le sei palle sul blasone dei Medici non siano proprio di cioccolata?)
Sempre seguendo Savarin, concludo chiedendo se qualcuno di voi si vuole associare al mio nuovo progetto di aprire una rosticceria, per vedere se ha o no la nobile art nel sangue.P.s: Lindt
Un ultima curiosità: nel 1879 lo svizzero Rodolphe Lindt inventò un metodo originale per raffinare il cioccolato. Scoprì il segreto per rendere il cioccolato più morbido e vellutato. Si tratta di un sistema che rende la miscela di cioccolato così fluida da sciogliersi in bocca. Lindt chiamò la nuova creazione "Chocolat fondant", che si fonde in bocca. Oggi il procedimento inventato da Lindt è conosciuto come il "concaggio".
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