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lunedì 15 dicembre 2008

Volver (Qualche appunto\spunto dalla Lectio Magistralis di Meri Lao del 13-12-2008)

Volver.
Volver, in spagnolo, significa "ritornare". Si tratta di una parola chiave per capire la storia del nostro genere musicale.
Di musica parliamo, e non di danza, sebbene soprattutto in Italia, il tango richiami in mente in primis un certo tipo di atmosfera, passi e movenze, un preciso gioco fisico e psicologico tra due sagome: stereotipi.
Se ci rechiamo a Buenos Aires e chiediamo a qualcuno per strada se gli piaccia il tango, si otterrà in luogo di una risposta un’altra (necessaria) domanda: tango? Per ascoltarlo o per ballarlo?
Sì, perché mentre da noi il tango viene concepito soprattutto come danza (ma la contraddizione la troviamo da soli, quando ci viene chiesto di pensare ad un grande rappresentante del genere: chi di voi pensa ad un ballerino?) esso contiene in sé un lato specificatamente musicale, che è la sua anima storica e culturale più profonda. E’ questa dimensione a farne un patrimonio della cultura di tutti.

Uno scaffale per il tango.
Si tratta dunque di riabilitare il tango, non come ballo, ma come musica, in quanto cioè realtà della cultura latinoamericana che, come il mais o la patata, come la letteratura di Borges, è diventata patrimonio comune, senza accantonarlo a fenomeno isolato, esterno, esotico.
“Esotico” invece il tango sembra essere tuttora considerato “al di qua” dell’oceano, soprattutto in Italia, e per farsene un’idea basta recarsi in un qualsiasi negozio di dischi: Piazzola è negli scaffali del Jazz, provvisoriamente, da trent’anni; gli altri sono nella musica “esotica”, fuori dai Canoni della cultura musicale ufficiale. Una sezione con un etichetta comune, “Tango”, sotto cui raccoglierli, tarda ancora ad apparire.
Si tratta dunque di ripensare il tango, e di farlo a partire dalle sue radici strorico-musicali.
“Il tango è un pensiero triste che si balla” (El piensamento triste que se baila). La frase è di Enrique Santos Discepolo, ma spesso è attribuita a Borges, o a Piazzolla, che odiava i ballerini (“me ne frego dei ballerini”). Ma proviamo per un attimo a prescindere dal ballo, (soprattutto dalle rose tra i denti e dai vari cliché impersonati da Rodolfo Valentino) e vedremo che la tristezza rimane, nella storia di un genere musicale che fra gli anni ’40 e ’55, quando raggiunse il suo apice, era di tutto rispetto, proprio come il Jazz. Le medesime coordinate storiche in nascono queste musiche di popoli migranti sembrano mostrare profonde concidenze cronologiche e contestuali tra i due generi.
La storia
Il tango nasce sulle due rive del Rio della Plata, da un lato le città (argentine) di Buenos Aires e Rosario, e dall’altra quelle (uruguayane) di Rio Negro e Canelones; situate in un area che costituisce un unico bacino linguistico e culturale.
Per capire la radice del “sentimento triste" bisogna partire da un detto che circola nel Centro e Sudamerica sull’origine delle popolazioni che quei luoghi abitano; recita il motto: “I centroamericani discendono dai Maya e dagli Aztechi; gli ecuadoriani e i perunensi discendono dagli Inca; i rioplatensi discendono dalle navi”.
E dalle navi discendono soprattutto italiani; immigrati che verso metà ottocento si riversano in massa sulle rive del Plata, dando origine ad un fenomeno di tale portata da essere stato definito l’"alluvione migratoria”. Basti pensare che se il rapporto tra immigrati italiani e cittadini statunitensi era di 1:9 quello italiani-argentini era di 1:2.

L’argentina tuttoggi, coi suoi 15 milioni di oriundi italiani su 34 milioni di argentini, potrebbe essere considerata quasi un’altra Italia. E il gradiente di italianità si fa ancor più evidente se concentriamo la nostra attenzione sul cognome dei principali musicisti di tango: Aníbal Troilo, Juan D’Arienzo, Carlos Di Sarli ,Osvaldo Pugliese, Francisco De Caro, sono tutti figli d’italiani. Lo stesso Astor Piazzolla aveva il padre toscano.
Si scopre così che il tango è una musica di immigrati, italiani sopratutto, gente che ha lasciata la propria patria, e canta nel tango il dolore della lontananza. Si tratta di una musica di sradicati, musica della nostalgia.
Nostalgia deriva dal greco nostos= "ritorno" e algheia= "dolore". Ecco spiegato perché nel tango sia il verbo VOLVER, con tutte le sue implicazioni psicologiche e esistenziali, a ritornate sempre, in maniera ossessiva.
(I medici Svizzeri del ‘600 furono i primi a studiarla, la nostalgia, come patologia spefica. Nei soldati spediti lontano dalla patria). La nostalgia a volte può farsi straziante:

Volver

Ritornare…con la fronte appassita,
le nevi del tempo argentarono la mia tempia…
Sentire…che è un attimo la vita,
che 20 anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina
Vivere…con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta…


Anche Olivieri, aggiungiamo, era figlio di italiani emigrati…
Il Nostos dunque è il nodo che l’emigrante deve esorcizzare, la nostalgia il sentimento di cui tutto il tango trasuda, la concrezione dell’anima che informa e modula la sua melodia.
Ubi sunt? Se c’è una definizione di tango è proprio quella di “rito consolatorio della nostalgia”, canto della lontananza.

Il Lunfardo
Nei paesi del Plata la migrazione biblica di cui sopra ha generato un dialetto del tutto particolare, il "Lunfardo". Si tratta di un gergo infarcito di italianismi che con lo spagnolo non ha quasi più niente a che fare, disseminato di espressioni dai dialetti lombardo, piemontese, napoletano e ligure. Lo stesso termine Lunfardo deriva da “Lumbard”, e del “lumbard” mantiene i superlativi in “un” (mi viene in mente solo “terun”, che non è un superlativo, ma avete capito) e un infinità di suoni come –sgie, -sgiu, -sgia, completamente sconosciuti allo spagnolo.
Le zone in cui si parla Lunfardo sono quelle in cui si dice “girar” invece di “caminar”, “lavuro” al posto di “trabajo”, e “pibe” (pensate al pibe de or) al posto di “ninho”. [Pibe viene dal genovese “pive” , ovvero pivello.] L’italiano lo si chiama “tano”, aferesi di napoletano.
E' il Lunfardo ad essere, non a caso, la lingua del Tango. Nasce con esso (in quelle terre in cui la “farinhà”, la farinata ligure, è ancora famosa come la pizza) e col tango si apre al mondo.
Un esempio? La stessa famigerata “cumparsita”. Il termine non sta nel vocabolario di spagnolo, vi si trova al massimo “comparsita”, ad indicare una sfilata di un piccolo gruppo di maschere per carnevale. E in effetti è in questa occasione che la melodia scritta da un gruppo di studenti uruguayani fa la sua comparsa (scusate il gioco di parole) nel 1916. Ma il nome che porta denuncia già la sua origine: la storpiatura (forse avevano in mente il partenopeo “cumpa’") è il marchio genetico del tango più celebre del mondo.
Ed è emblematico, ancora, il caso del tango “violeta”, che riprende un motivetto lombardo “e la viuleta la va la va” (cantato anche da Orietta berti)

La Viuleta
Col gomito sul lurido tavolo
e fisso lo sguardo su un sogno
pensa l'italiano Domingo Pulenta
al dramma della sua immigrazione.

E nella sudicia osteria dove cantala nostalgia del vecchio paese
stona la sua gola rauca
indurita dal vino rosso.

"E la Violetta la va, la va, la va, la va,la va sul campo che s'era 'nsugnada
che gl'era el so Gingin che la rimirava".

Anche lui cerca un bene sognato
dal giorno ormai lontano
in cui partì col suo carico d'illusione
come la Violetta che la va la va.

Canzonetta di terre lontane
che idealizza la sporca taverna
e fa brillare gli occhi del tano
con la perla di qualche lacrima.

L'ha imparata arrivando con altri
racchiuso nella pancia di una nave,
ed è con lei, mentre fa chiasso,
che consola la sua delusione.

Musica: Cátulo CastilloParole: Nicolás Olivari
Traduzione di Meri Lao("T come Tango", Melusina Editrice, Roma 1996)

E' sul Rio della Plata tra la fine dell’ ‘800 e i primi del ‘900 che si gioca questa storia, di cui il tango porta nel midollo il marchio e il ricordo.

"Come una pala che, affondando nel terreno, sradica vite, mescolando piante a piante, terra a sassi, erba buona a cattiva, vermi a germogli, allo stesso modo le anime che popolarono l’Argentina, africane, ispaniche e italiane, scavarono nel profondo della loro condizione assurda, barattando con altri disperati una nostalgia per un bicchiere, un rimpianto per un cigarrillo, un sorriso per una nuova identità comune. E tutto questo portò a un canto comune, un inno a un popolo per il quale, esistere, fu resistenza ed esilio al contempo. Il tango. […]
I nostri emigranti, i nostri italiani, i nostri friulani, con la faccia da fornaciai, muratori, scalpellini, terrazzai e boscaioli. Gente che il nostro governo spedì in un esodo senza ritorno, sperando di riequilibrare il bilancio grazie al denaro che avrebbero spedito alle famiglie.
Fantasmi, ecco cosa furono.

Popolarono la periferia come fantasmi, incapaci di appartenere, sentendosi fuori luogo, dissociandosi dalla realtà. Tutti legati al paese lontano e con l’idea ossessiva del ritorno. Nostalgia pura: “nostos”, ritorno al paese, “algia”, dolore.
E nelle notti, in quelle strade, alla fine del lavoro, i nostri friulani assieme a mille connazionali e assieme a mille compagni di faccia scura, giocavano, bevevano e cantavano con la frontiera nel cuore.
Uomini di frontiera, sì, i nostri progenitori, quella di nord-est che diede loro i natali, quella del mondo oltre al mare che li accolse e quella dell’anima, sempre in viaggio. Uomini di montagna e contadini, gente tosta, insomma, “notturna”, con un patrimonio genetico fatto di malinconia, angoscia, coscienza profonda della morte, un filo di anarchismo e attaccamento nevrotico al lavoro. Tutti eroi in una silenziosa epopea collettiva che, rispondendo a un richiamo arcano, andarono a sopravvivere in America Latina.
E lì, assieme a uomini altrettanto ruvidi, abituati alla rinuncia, alla solitudine e al lavoro, crearono la messa in scena della loro stessa esistenza, per poterla sopportare, esorcizzare il dolore e trovare una nuova identità. E si inventarono la loro lingua, il “lunfardo” con il quale cantarono il tango. E, in lunfardo, continuarono a giurare che un giorno sarebbero tornati a casa. Ecco il verbo del tango: il “volver” il verbo tornare.
L’80% delle parole di questa lingua, dunque, spesso incomprensibile agli stessi ispanici, sono italiane.
Parole dei gringos italiani che hanno contribuito alla nascita del tango. E, al proposito, ricordiamo che dietro agli pseudonimi di grandi tanghisti si nascondono nomi della nostra Penisola: Hugo del Carril è Piero Bruno Hugo Fontana, Jorge Casal è Salvatore Pappalardo, Rodolfo Lesica è Rodolfo Alberto Aiello, Ray Rada è Raimondo Rogatti, Pepita Avellaneda è Josefa Calatti, Valeria Lynch è Maria Cristina Lancellotti, Linda Thelma è Hermelinda Spinelli e Alba Solìs è Angela Lamberti.
Nessun tango è nato, come alcuni sostengono, nelle “case chiuse”, i così detti bordelli. [esso] ha origini ben più serie, sofisticate e complesse. E non soltanto musicalmente, ma in senso esistenziale


di Lucia burello tratto da http://www.festivaldetango.it/html/it/prog_migrazione.html


Il ritmo, fisico.
Fin dal 17° secolo, a Cuba esisteva un ritmo - poi giunto in Argentina nella prima metà dell'ottocento - la milonga o habanera, chiamato dagli schiavi: tango congo. L'habanera cubana, a sua volta generata da motivi africani portati dagli schiavi in America Latina nel 18° secolo, raggiunse una forma compiuta nell'incontro/fusione con la payada, che era un canto poetico caro alle genti delle campagne. Habanera e payada generarono la milonga (che fu anche una danza): un canto malinconico e triste che raccontava le difficoltà della vita e le pene d'amore del popolo (altra affinità con il Blues), al suono di chitarra, flauto e violino. La milonga rappresentò a tutti gli effetti la matrice del tango, non a caso, fino al 1910, il tango fu chiamato milonga con cortes. Il ritmo proviene dunque dai carabi, è un seme lasciato da marinai nella plata, doce si impianta e fiorisce: tango.
Inizialmente si trattava di un 2/4 con ritmo rapido ma in seguito trasformò la sua battuta in quattro tempi, con aggiunta di testi che ne rallentarono il battito. Il tipico andamento della milonga (si pensi alla Habanera nella "Carmen" di Bizet) poneva tre accenti fondamentali nella battuta: nel primo, terzo e quarto, con il terzo movimento anticipato da una croma. (Si crede che l'enfasi su quest'ultima abbia generato il nuevo tango piazzolliano, (andamento di 3+3+2 crome in una battuta di 4/4). Si tratta a tutti gli effetti di un poliritmo, anch'esso di derivazione africana, composto da un ritmo ternario incastonato con quello binario di base.)

Insomma, una volta un direttore d’orchestra cubano dovendo mostrare ad un percussionsta incapace di leggere la partitura il ritmo del tango gli disse: “Fa questo: “Cafè con pan” ” [ta tàn tà tàn (pensate alla Carmen). Ora mentre ascoltate i tanghi classici ripetetevi in testa questa frasettina: “Cafè con pan, cafè con pan”, e vi accorgerete che avete la chiave ritmica di tutti i vostri pezzi (L'amour est enfant de Bohème, il n'a jamais, jamais connu de loi...cafè con pan)
(E non solo, funziona con "Besame Mucho" di Consuelo Velasquez, con "O sole mio" etc. etc.)

Il primo tango rioplatense ad arrivare in europa è “La morocha” , nel 1905 .
La cellula ritmica , col suo elemento ti tensione e distensione è stregante, fisica, pulsionale e fa di questa danza di migranti (che nasce con forti punti di contatto – prima di tutto la condizione di estranei in terra straniera - con altri generi, quali jazz, fado e flamenco) una musica unica ed affascinante.

Chiudo questi appunti col testo del tango Malèna, che potete ascoltare nelle colonne foniche:

Malena canta il tango come nessuna
e in ogni verso mette il suo cuore.
Di erbacce del sobborgo la sua voce profuma,
Malena ha la pena del bandoneón.
Forse là nell'infanzia la sua voce di allodola
ha preso quel tono buio da vicolo,
oppure in quel breve amore che solo nomina
quando diventa triste nell'alcol.
Malena canta il tango con voce d'ombra,
Malena ha una pena da bandoneón.

La tua canzone
ha il freddo dell'ultimo incontro.
La tua canzone
si fa amara nella sale del ricordo.
Io non so
se la tua voce è il fiore di una pena:
so solo
che al sussurro dei tanghi tuoi, Malena,
ti sento più buona, più buona di me.

Hai gli occhi bui come l'oblio,
le labbra strette come il rancore;
le tue mani sono due colombe che hanno freddo,
nelle vene hai sangue di bandoneón.
I tuoi tanghi sono creature abbandonate
che attraversano il fango del vicoloq
uando tutte le porte sono chiuse
e abbaiano i fantasmi della canzone.
Malena canta il tango con voce spezzata,
Malena ha la pena del bandoneón.


musica: Lucio Demare
letra: Homero Manzi
traduzione di Meri Lao, raccolta nel volume: "T come Tango", Melusina editrice, Roma 1996

Ps. Un ultima curiosità; il caschè , questo bel francesismo. Nel linguaggio internazionale del balletto la lingua ufficiale è il francese, ma in francia si tombe, non si casc. Caschè suona molto più familiare, non vi sembra?