Visualizzazione post con etichetta linguaggi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta linguaggi. Mostra tutti i post

sabato 18 dicembre 2010

Le bon Dieu est dans le détail.


“Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?". Tre domande generali:

Da una nota di Umberto Eco su Aristotele (e il suo commentatore Aubenque): “In Poetica 1476b 7 (nota Aubenque) si dice: “Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?. Aubenque (1962: 116) cita una pagina degli Elenchi. Poiché non si possono portare nella discussione le cose stesse,ma dobbiamo servirci dei loro nomi come di simboli, noi supponiamo che ciò che avviene nei nomi avvenga anche nelle cose, come del caso dei sassolini che si usano per contare. Ma tra nomi e cose non vi è completa rassomiglianza, i nomi sono in numero limitato, e così la pluralità delle definizioni, mentre le cose sono infinite in numero (e infiniti sono i loro accidenti)” (Kant e L'ornitorinco, n. 10 p. 390)

1) Bordeaux, Granata, Rosso Geranio, Rosso Cadmio, Rosso Tiziano, Borgogna, Carminio, Sangria, Ruggine, Mattone, Rosso cardinale, Rosso Veneziano, Rosso di Persia, Terra cotta, Castagno, Ciliegia, Corallo, Melograno, Rosso Scarlatto, Vermiglione etc…. Posso percepire tutte le sfumature del rosso se non padroneggio questi concetti? (Per una considerazione del rapporto tra linguaggio e cose, dal punto di vista del dibattito tra filosofi della scienza, vedi il vecchio post)

2) Che rapporto c’è tra il vocabolario che imparo ad usare durante il corso di pittura e la mia capacità d’osservare certe sottili sfumature di colore nelle cose che mi circondano? E - per restare alla moda - tra le parole che apprendo (con molta fatica) ad usare durante il corso di sommelier e la complementare capacità che acquisisco (con analoghi sforzi) di discernere le sfumature di sapore della mia esperienza gustativa?

3) Che ruolo gioca la mia educazione (sviluppo della capacità percettiva ed estensione del mio vocabolario) all’interno dei processi con cui percepisco gli eventi (non solo percettivi, la domanda vale anche per quelli politici e storici, ma è più comodo partire dai casi base)?


Verso una teoria della sfumatura. (De Lillo Vs Calvino, II Puntata. Ciclo dei dialoghi)

"11 gennaio 1955

Talvolta penso che l’educazione che dispensiamo qui sia più adatta a un cinquantenne che ha capito di aver mancato il bersaglio al primo giro. Troppe idee astratte. Verità eterne a destra e a sinistra. Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti. A te in particolare, Shay, visto da dove vieni.
Questo parve rianimarlo. Si sporse sopra la scrivania e fissò, letteralmente, i miei stivali bagnati.
– Sono oggetti orribili, vero?
– Sì senza dubbio.
– Nominami le parti. Coraggio. Qui non siamo così ricercati, non siamo così intellettualmente chic da non poter esaminare uno studente faccia a faccia.
– Nominare le parti, – dissi. – D’accordo. Stringhe.
– Stringhe. Una su ogni scarpa. Procedi.
Alzai un piede e lo girai goffamente.
– Suola e tacco.
– Sì, continua.
Posai di nuovo il piede a terra e fissai lo stivale, che mi parve inespressivo quanto uno scatolone chiuso.
– Procedi, ragazzo.
– Non c’è molto da nominare, le pare? Un davanti e un dietro.
– Un davanti e un dietro. Mi fai venire voglia di piangere.
– La parte arrotondata sul davanti.
– Sei talmente eloquente che devo fare una pausa per riavermi. Hai nominato le stringhe. Come si chiama il lembo sotto le stringhe?
– La linguetta.
– Be’?
– Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.
Padre Paulus fece il suo piccolo numero, buttandosi a corpo morto sulla scrivania e sussultando lievemente come se fosse in preda a una terribile angoscia.
– Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi.
Tentennò il capo come per rimproverarmi aspramente, con un gesto teatrale, e si ritrasse dal piano della scrivania, lasciandosi cadere sulla sedia girevole e guardandomi di nuovo prima di fare un quarto di giro deciso e sollevare la gamba destra quel tanto che bastava perché il piede, o meglio la scarpa, trovasse una sistemazione sul bordo della scrivania, punta all’insù. Una normalissima scarpa da prete nera.
– D’accordo, – disse. – Suola e tacco li conosciamo.
– Sì.
– E abbiamo identificato la linguetta e le stringhe.
– Sì, – dissi.
Delineò con il dito una striscia di pelle che attraversava il bordo superiore della scarpa e scendeva sotto la stringa.
– Cos’è? – chiesi io.
– Dimmelo tu. Cos’è?
– Non lo so.
– È il risvolto.
– Il risvolto.
– Il risvolto. E questa sezione rigida sopra il tacco. Questo è il rinforzo.
– E questo pezzo a metà tra il risvolto e la striscia sopra la suola. Questo è il dorso.
– Il dorso, – ripetei.
– E la striscia sopra la suola. Quello è il guardone.
Ripetilo, ragazzo. – Il guardone.
– Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano. E l’area frontale che copre il collo della scarpa come si chiama?
– Non lo so.
– Non lo sai. Si chiama tomaia.
– Tomaia.
– Ripetilo.
– Tomaia. L’area frontale che copre il collo della scarpa. Credevo di non dover imparare le cose a memoria.
– Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo. E la stringa la fai passare attraverso che cosa?
– Questo dovrei saperlo.
– Certo che lo sai. I buchi su entrambi i lati e sopra la linguetta.
– Non mi viene in mente la parola. Occhiello.
– Forse ti lascerò vivere, dopotutto.
– Gli occhielli.
– Sì. E il rivestimento metallico su ciascuna estremità della stringa?
Diede un colpetto all’oggetto in questione con il dito medio.
– Questo non lo saprei neanche tra un milione di anni.
– L’aghetto.
– Neanche tra un milione di anni.
– Il puntale o aghetto.
– L’aghetto, – ripetei.
– E il piccolo anello di metallo che rinforza il bordo dell’occhiello attraverso cui passa l’aghetto. Stiamo facendo la fisica del linguaggio, Shay.
– L’anellino.
– Lo vedi?
– Sì.
– Questa è la guarnizione, – disse.
– Oddio, ragazzi.
– La guarnizione. Imparala, conoscila e amala.
– Sto andando fuori di testa.
– Questa è la conoscenza arcana definitiva. E quando porto la scarpa dal calzolaio e lui la mette su una forma per fare le riparazioni, un blocco di legno a forma di piede. Come si chiama?
– Non lo so.
– Si chiama semplicemente forma da scarpa.
– Mi si sta spaccando la testa.
– Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila, – mi intimò.
– Quotidiano.

(…)
Mi oltrepassò con lo sguardo, facendo un ragionevole cenno d’assenso, e io mi girai per andarmene. Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano. Questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.


Underworld, Frammenti degli anni ’50 e ’60, pp. 576 – 580 .

----------------------------------------------------------------------------

Dettagli del calzolaio, dettagli del falegname.

La terza lezione americana di Calvino è dedicata al valore dell' Esattezza, di cui all’inizio lo scrittore definisce 3 significati. Il terzo significato (della terza lezione) è l'accezione che mi interessa “un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. A tal proposito Calvino riprende un dialogo dalle Città invisibili in cui Kublai Kahn gioca a scacchi con Marco Polo e compara le sue conquiste alle mosse vincenti di una partita.

“La conclusione finale cui lo porta questa operazione - scrive Calvino - è che l’oggetto delle sue conquiste non è altro che il tassello di legno sul quale ciascun pezzo si posa un emblema del nulla…
Ma in quel momento avviene un colpo di scena: Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla:


'Ormai Kublai Kan non aveva piú bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell'impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s'aprono alle incursioni dell'alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell'umile pedone, dalle alternative inesorabili d'ogni partita. Il Gran Khan cercava d'immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d'ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.

Allora Marco Polo parlò: - La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di
siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l'obbligò a desistere -. Il Gran Khan non s'era fin'allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. - Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d'una larva; non d'un tarlo, perché appena
nato avrebbe continuato a scavare, ma d'un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l'albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall'ebanista con la sgorbia perché aderisse al
quadrato vicino, più sporgente...
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli
approdi, delle donne alle finestre...' ”

Da Marco Polo a Calvino :
“Così negli ultimi anni ho alternato i miei esercizi sulla struttura del racconto con esercizi di descrizione, arte oggi molto trascurata. Come uno scolaro che abbia avuto per compito “Descrivi una giraffa” o “Descrivi il cielo stellato” [descrivi una scarpa], io mi sono applicato a riempire un quaderno di questi esercizi e ne ho fatto materia di un libro. Il libro si chiama Palomar ed è uscito ora in traduzione inglese: è una specie di diario su problemi di conoscenza minimali, vie per stabilire relazioni col mondo, gratificazioni e frustrazioni nell’uso del silenzio e della parola”.

III Lezione – Esattezza pp.81 - 83
FINE

mercoledì 8 aprile 2009

Il baco che fila il suo filo

Che cos’è un elettrone? Una parola, nove lettere; ed un simbolo, e-.
Sembra però che, oltre a formare la parola, tanto l’accostamento delle nove lettere quanto il simbolo siano in grado di indicare anche un corrispettivo oggetto. Questo gode di certe proprietà, si comporta in una determinata maniera (rispetta ad esempio la statistica di Fermi–Dirac), e spiega, al premere del corrispondente interruttore, il fenomeno dell’accensione delle vostre lampadine.
Ma tutto questo chi ce lo dice? Una teoria.
E cos’è una teoria? Ancora una parola. Giusto. Ma questa volta la parola indica un oggetto particolare perché formato, a sua volta, da molte altre parole. Queste sono i termini che articolano quella stessa (ed ogni) teoria.
Un teoria può dunque essere descritta come un insieme di termini tra loro in connessione, come elettrone, atomo, idrogeno (nella teoria atomica, ma anche flogisto, fuoco, aria; io, es, superio; struttura, sovrastruttura, rivoluzione, s,t,v), che io uso per descrivere certi fenomeni.
I termini sono collegati tra loro (attraverso costanti logiche, teoria della quantificazione, matematica, etc. etc.) a formare delle leggi. Le leggi, si noti, agiscono sui termini stessi contribuendo alla definizione dei loro significati, perché esse mi esplicitano le loro relazioni reciproche (e.s.: f=ma vale in parte come legge ma in parte anche come definizione dei simboli che vi compaiono).
Dunque una teoria fisica è un linguaggio con cui io parlo delle cose. Vedo che accade qualcosa e lo descrivo con una precisa formulazione (o formula), utilizzando le parole e le connessioni che la teoria mi mette a disposizione.

Bene, direte voi, c’è il linguaggio e ci sono le cose, il primo mi serve per parlare delle seconde.
Ebbene no, ci dicono, partendo da vari punti di vista, i linguisti, gli ermeneuti, i nuovi filosofi della scienza, le cose vanno in maniera diversa. Se io ho un insieme di termini tra loro collegati da particolari relazioni e li uso per descrivere ciò che vedo, ecco che questi termini, e dunque la teoria, cui essi appartengono, plasmano le cose e non le descrivono soltanto; determinano cioè il modo in cui è fatto il mio mondo.

E come fanno? (Concentriamoci momentaneamente sulla 'nuova' filosofia della scienza)
Poniamo che io abbia un certo fenomeno, tipo il fuoco. Come lo spiego? Con quali altri eventi che osservo lo devo mettere in relazione per comprenderlo? Quali caratteristiche comuni ad altri fenomeni isolo per costruire le miei ipotesi? Su che base congegno poi i miei esperimenti?
Ecco, diciamo che io costruisco una teoria, in cui definisco determinati oggetti ipotetici e le loro relazioni reciproche, definisco cioè e battezzo entità (quelle rappresentate da simboli come e-, H o O2) e il loro comportamento; ciò fa sì che io possa ora osservare il mio fenomeno con uno sguardo ben indirizzato, sotto il un preciso punto di vista. Una volta che avrò il mio vocabolario e gli oggetti corrispondenti infatti, potrò descrivere quello che osservo nei termini corrispettivi, e mediante essi costruire e interpretare ciò che 'vedo' durante i miei esperimenti (“nessun esperimento può essere concepito senza una teoria di qualche genere”, insegna Kuhn). Se siete un fisico siete così in grado di leggere negli scarabocchi in alto a destra le tracce di "un evento di interazione di un pione con un nucleo di 3He del gas della camera a bolle" (qui accanto). Prima di poter fare ciò dovete però aver definito cos'è un pione, avergli attribuito delle proprietà, aver previsto come si comporta in una determinata situazione e, sempre sulla base della vostra teoria (sommata a tutto il retroterra delle vostre teorie fisiche che implicitamente accettate) aver costruito tale situazione sperimentale in laboratorio. La stessa cosa si può dire per gli elettroni, individuati, in una camera a nebbia, da delle goccioline di vapore. Ma anche per riconoscere delle correnti elettriche serve già un po' di dottrina, perché "noi non vediamo affatto delle correnti elettriche, ma piuttosto l'ago di un amperomentro o di un galvanometro".
In qualche misura la mia teoria, ma forse è banale, legifera già sui miei fenomeni, e non può non farlo. Altrimenti cosa verifico? Cosa descrivo e come?

Altro esempio. In principio era il flogisto, misterioso principio di infiammabilità che si riteneva contenuto nelle sostanze fuocosensibili e da queste liberato durante la combustione, che il flogisto contribuiva in buona misura ad esplicare. E il flogisto funzionava (come funzionavano il sistema tolemaico e la fisica newtoniana) essendo in grado di spiegare, ad esempio, l'ottenimento dei metalli dalle calci. Tutti gli scienziati fino all’incirca al 1770 credevano nella corrispondente teoria e lo usavano nel progettare e nell’interpretare i loro esperimenti.
Ad un certo punto però la teoria del flogisto cominciò a sembrare incapace di spiegare certi fenomeni, noti già da tempo (vedi l'aumento di peso di alcuni metalli bruciati) ma che ora, complice la graduale assimilazione della gravitazione universale di Newton (un’altra teoria, i.e. altro modo di descrivere e relazionare le cose), divennero centrali, poiché rappresentavano il punto di scontro scottante tra due descrizioni apparentemente opposte delle cose. Se l’aumento di peso significava aumento di materia (l’aveva detto Newton), come si accordava tale aumento con la volatilizzazione e conseguente perdita di flogisto? “Forse il flogisto aveva peso negativo, o forse particelle di fuoco entravano nel corpo bruciato quando il flogisto lo abbandonava”.
Ci furono varie riformulazioni, ma la questione non si risolse finché non ci si decise a cambiare il punto di vista da cui il tutto veniva osservato, ovvero cambiare vocabolario. Ciò avvenne a partire dal 1777, quando Lavoisier (ritratto con signora, a fianco, Jacque-Louis David) sotto qualche suggerimento di Priestley, scoprì l’ossigeno, anzi, meglio, quando Lavoisier formulò la teoria della combustione per opera dell’ossigeno, teoria che “fu la chiave di volta per una riformulazione della chimica così vasta che di solito è indicata col nome di rivoluzione chimica”.

Cambio di parole, cambio di teoria, cambio nel modo di vedere il mondo.
Lo stesso accadde per la teoria elettrica e la precedente teoria dell’ “effluvio” (che aveva portato alcuni scienziati ad imbottigliare l’elettricità, credendo appunto che fosse un fluido) e per il passaggio dalla fisica newtoniana a quella relativistica, per le quali si possono addurre esempi simili.

Ma cosa succede alle parole in occasione di mutamenti del genere? E cosa succede al mondo che queste parole descrivono?
Cambiano, tutti e due, specularmente. Sembra si assista alla trasformazione completa del nostro modo di vedere e di parlare delle cose. Ogni volta il mondo viene “ricatalogato”.

Pensiamo al cambiamento del significato dei termini quali “spazio” e “tempo” nel passaggio dalla fisica newtoniana a quella einsteiniana. Lo spazio non è più lo scatolone “assoluto” - piatto, omogeneo, isotropico e non influenzato dalla presenza di materia - in cui ci troviamo rinchiusi (e soprattutto non è nemmeno euclideo), e il tempo non è più una funzione costante che procede in linea retta sempre uguale in tutto lo scatolone, ma è mischiato col concetto-oggetto precedente di tempo formando un'unica variabile. (La “massa” newtoniana, poi, è qualcosa che si conserva immutabile, quella einsteiniana ha invece la proprietà di potersi convertire con l’energia). Come dice ancora Kuhn, si potrebbe dire che si assiste alla “trasformazione della struttura concettuale attraverso la quale gli scienziati guardano il mondo” (Kuhn, p.131).
Ma questa metamorfosi è solo teorica oppure cambiano radicalmente anche gli oggetti che popolano il nostro universo, se non (dopo Einstein, ad esempio) la forma e le caratteristiche stesse di quest’ultimo? Sembra si possa protendere per la seconda ipotesi.
Così basti considerare il termine “elemento”, il cui significato fu cambiato da Lavoisier e da Boyle in maniera sostanziale, insieme al tipo di entità che tale mutamento ha inserito nell'universo (pensate alla differenza di significato del termine per come occorre nei precedenti "quattro elementi…").

Eppure le parole sono sempre le stesse: “spazio”, “tempo”, “elemento”, com’è possibile che possano cambiare così il loro significato? Esse occorrono in teorie differenti, si è detto, e sono queste a determinarne il senso.
Da qui il problema della comucabilità: quando due scienziati che caldeggiano due teorie diverse (e rivali) si parlano, anche utilizzando le stesse parole (con accezioni però necessariamente diverse) possiamo dire che si capiscano o piuttosto che inevitablimente si fraintendano? E come accade che lo spostamento del punto di vista teorico muti così sostanzialmente il contenuto delle parole?

Tutto questo può sembrare più ragionevole se ricordiamo ancora una volta che né gli scienziati né i profani imparano a vedere il mondo in modo frammentario e pezzo a pezzo. Fatta eccezione per il caso in cui tutte le categorie concettuali e manipolative sono già pronte in anticipo […] sia gli scienziati che i profani traggono ampie informazioni dal flusso dell’esperienza. Il bambino che trasferisce la parola “mamma” da tutti gli esseri umani a tutte le donne e quindi alla propria madre non sta semplicemente imparando cosa significa mamma o chi sia sua madre. Egli impara allo stesso tempo alcune differenze tra gli uomini e donne e anche qualcosa sul modo in cui tutte le donne eccetto una si comporteranno verso di lui. Le sue reazioni, le sue aspettative e le sue opinioni – e quindi, gran parte del suo mondo percettivo – vengono modificate corrispondentemente. Considerando le cose da questo punto di vista i copernicani che negavano al sole il suo tradizionale titolo di ‘pianeta’ imparavano non solo cosa significava ‘pianeta’ o cos’era il sole; al contrario essi mutavano il significato del termine ‘pianeta’ in modo che esso potesse continuare ad operare utili distinzioni in un mondo in cui tutti i corpi celesti, e non solo il sole, venivano visti in modo differente da come erano stati visti prima. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto a proposito di tutti gli altri esempi fatti in precedenza. Vedere ossigeno invece di aria deflogistizzata, il condensatore invece della bottiglia di Leida o il pendolo invece della caduta vincolata era soltanto una parte del totale cambiamento di visione che si verificò nello scienziato nei confronti di un gran numero di fenomeni rispettivamente chimici, elettrici o dinamici

Tutto ciò, sembra, mostra come una teoria contribuisce all’organizzazione del materiale caotico dei fenomeni che ci si presentano, facendone un sistema più o meno organizzato di oggetti in relazione tra loro. La teoria mi dice com’è fatto il mondo; ho sempre dei sistemi di parole che lo organizzano.
Dunque “la luna è un pianeta o un satellite?”, “la balena è un pesce o un mammifero?”. La scelta cui ci esortano queste domande è importante, non solo perché determina il significato delle parole 'luna' o 'balena', ma anche perché marca la differenza tra le corrispondenti teorie attraverso cui io guardo le cose, teorie che classificano, ad esempio, gli animali sulla base o del loro habitat, o della loro maniera di fare figli, (o ancora, in altri casi, sulla base della loro parentela con Dio o con le scimmie).

Il problema è, in secondo luogo - se il significato delle parole dipende dalla teoria – quello della traducibilità; se ci sia modo di tradurre una teoria in un'altra, e dunque di comparare i mondi che esse descrivono, oppure se differenze teoriche condannino ad una babele di credenze, destinate al incomprensione costante. Perché poi, se le teorie non sono traducibili, i mondi che esse ritraggono sono incommensurabili. Ci si è chiesti: ci sarà una base standard d’osservazione, cioè un vocabolario di fatti base, semplici, tipo “piove”, le cui parole siano incontaminate da qualsivoglia teoria e universalmente comprensibili a partire proprio dall’osservazione stessa? (A Feyerabend, ma non solo) sembra di no, ognuno dei vostri termini è theory-laden, carico delle vostre credenze.

Ammettiamo che un individuo cada a terra di fronte a voi, le membra scosse da tremori inconsulti e incontrollati, che della bava bianca si formi ai lati della bocca. Voi assistete alla scena e dite: “Attacco epilettico!”.
Mentre vi date da fare per chiamare il 118 e soccorrere il poveretto in preda alle convulsioni passa per caso un indigeno, che assiste all’evento e dice: “Possessione demoniaca!”.
Bene, secondo quanto sostenuto sopra è evidente che avete due teorie diverse, e entrambe determinano in maniera sostanziale ciò vedete. Il tipo è tanto sicuro di vedere un caso esemplare di occupazione corporea da parte di un demone quanto voi siete sicuri, in quel tremore, di vedere un caso di epilessia, soprattutto se siete medici. (Ricordo che quello che vedete cessa di essere una mera questione terminologica nel momento in cui determina, e nel caso lo farà, ciò che fate, ovvero come lo curate, se con l'aglio o con altro.).
Per far capire all’aborigeno che tipo di fatto egli abbia davnti dovrete fargli un corso propedeutico di fisica, uno chimica e poi uno completo o quasi di medicina. Dovete insegnargli la vostra teoria (gli è necessaria anche per capire gli esperimenti che addurrete come prova, come sono congegnati e cosa significano) e convertirlo, al vostro vocabolario; perché di conversione si tratta (almeno nei termini in cui ne parla ancora Kuhn), oppure, se lui ci riesce, potrebbe convertire voi al demonismo, il che significa poi convertirsi al suo universo del discorso e cominciare a parlare di demoni (e gli esorcismi vanno ancora di moda, l’ultimo è stato praticato da Giovanni Paolo II il 6 settembre 2000, pare senza successo. A ognuno le sue teorie. - A lato, dal ciclo delle pitture nere, Fracisco Goya, L'esorcismo)

Insomma, come diceva Humboldt: l’uomo “cava da sé il linguaggio come il baco che fila il suo filo e con lo stesso atto si rinchiude nel bozzolo; e ogni lingua getta in tal modo intorno al popolo, a cui appartiene, un cerchio dal quale non è possibile uscire se non a questa condizione: di entrare immediatamente nel cerchio di un altro popolo.

Da un punto di vista linguistico, risultati analoghi a quelli che Hanson, Kuhn, Feyerabend e gli altri “nuovi filosofi della scienza” hanno raggiunto in campo epistemologico, sono stati espressi da studiosi quali Sapir e Wohrf . Il primo giunge ad una conclusione quasi identica a quella proposta da Kuhn (cfr. commento a Oh cielo) affermando: “i mondi in cui differenti società vivono sono mondi distinti, non semplicemente lo stesso mondo con differenti etichette attaccate”. Il secondo linguista, allievo del primo, sulla base dei suoi studi sulla lingua Hopi (popolazione Amerinda dell’Arizona del Nord, nel cui vocabolario manca tra l’altro la categoria di “sostanza”) sostiene: non è che “gli enunciati sono differenti perché parlano di fatti differenti, ma i fatti sono differenti per parlanti il cui retroterra linguistico ne dia formulazioni differenti”.

Dunque ogni linguaggio, scientifico o ordinario che sia, verrebbe introdotto per dare espressione a una qualche teoria o punto di vista, veicolando perciò con sé già una certa prospettiva sul mondo e una ontologia ben sviluppata, talvolta molto astratta.


a) “Sono entrato in un bar. Ho bevuto un caffè.”

Se state passeggiando e ascoltate incidentalmente questo enunciato non avrete particolari problemi nella sua interpretazione. Ammettiamo però che passando vediate due uomini e sentiate l'uno dire all'altro:

b) “Il fiume era in secca da molto tempo. Tutti andarono al funerale.”

Che significa? Come si legano le due parti dell’enunciato?
Per noi, che abbiamo un certo nucleo di credenze (i.e. condividiamo certe teorie), la frase è oscura e di difficile interpretazione, ma è immediata se siete un parlante del Sissala (una lingua parlata in Gahna e in Burkina Faso) il quale, nell’esplicitare l’insieme di assunzioni contestuali (teoriche?) in esso implicite, produrrebbe un enunciato come:

b1) "Il fiume era in secca da molto tempo. Quando un fiume è in secca da molto tempo vuol dire che uno spirito è morto, e che si deve fargli il funerale. Tutti andarono al funerale".

(Esempio in Bianchi 2007 p,115 , da Blass 1990)

Eppure, nel caso esposto, state usando persino lo stesso linguaggio. Siamo sicuri che al suo interno voi e il Sissala italianofono attribuiate lo stesso significato, ad esempio, alla parola “secca”? Non so quanto potrete convenire e far vostra l’accezione e la teoria del dio iracondo contenuta nel termine dell’indigeno (e i Sissala, quando hanno la “gola secca”, organizzano marce funebri?)
A proposito di dèi iracondi, se aprendo la mia finestra sul golfo di Napoli io dicessi: “Stamattina Giove è incazzato nero”; come fate a capire che c’è il mare mosso? Lo capireste immediatamente solo se foste nel II sec. A.C. e vi affacciaste dunque sul procelloso mare dalla finestra della vostra domus. L’insieme delle vostre credenze (mitologiche, e annesse metereologiche) vi farebbe comprendere immediatamente l'enunciato.

E ancora, se mettete le dita nella presa della corrente e dite “ho preso la scossa” servirà la teoria elettrica per farvi capire dal Sissala (che non conosce la parola), e se per caso cominciaste a tremare, l’indigeno di prima, passando, penserà che un demone si sia nascosto in uno dei fori della presa. Lo stesso indigeno non capirà nemmeno una banale frase sul caffè come la precedente, almenoché voi non la riformuliate più o meno così:

a1) "Sono entrato in un luogo pubblico dove si vendono bevande calde e fredde, ho ordinato una bevanda di colore nero, comunemente chiamata caffè etc. etc."

Ma è possibile retrocedere a formulazioni sempre più semplici, fino a raggiungerne delle neutre non contaminate da qualsivoglia teoria?
Sembra di no.

Si potrebbe per l’occasione rispolverare la vecchia massima nietzscheana “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Le teorie scientifiche sono tutte uguali, (non a caso si parla di “egualitarismo epistemologico”), esse modulano solo un caleidoscopico caos di fenomeni in strutture più o meno organizzate. Stessa cosa per le lingue: sistemi, per quello che ci interessa, di parole. (Conseguentemente esse non si avvicinano ad alcunché che possa chiamarsi verità, ma questa è un'altra questione).

E la storia?
Siamo chiaramente ancora di fronte ad altre teorie, ma in questo caso sembra più pacifico e acquisito dalla communis opinio (e da Williamson) il fatto che ci si trovi davanti a categorizzazioni piuttosto arbitrarie. Prendiamo il termine “medioevo”, che utilizziamo per sistematizzare un certo insieme di fenomeni e indizi che ci troviamo davanti agli occhi (comprendenti: incunaboli conservati nelle biblioteche, le cattedrali nei centri storici etc. etc.). “Medioevo” è una certa categoria che appartiene ad una certa teoria storica, per cui in fondo, come ci insegna Ginzburg, il medioevo non esiste, ce lo siamo inventato noi - i medievali erano medievali ma non lo sapevano.
(E dunque se il “Medioevo” ce lo siamo inventato, perché non si può dire che si siamo inventati gli “elettroni”? Qual è la differenza fra invenzione e scoperta? Rimando al prossimo post)


Stessa cosa per il “Moderno”. “Moderno” deriva dalla tarda latinità, dalla radice di modus = ora. Il suo primo significato è un accezione di vicinanza e prossimità temporale, accezione che si rintraccia nella cultura europea fino nel ‘300\’400. Poi vi si innesta una sfumatura assiologia a mutarne il significato, quella di “evoluto”, “avanzato” “migliore” e non solo “precedente”, ma la parola non cambia (come sempre la plasticità del significato si contrappone all’inerzialità della forma, come per “spazio” e “tempo” nel passaggio tra le due fisiche - ma perché Einstein non ha inventato una parola diversa per un concetto diverso?).
Ecco dunque che “moderno”, nel farsi categoria storica, mantiene semanticamente la concrezione di radice latina e giudizio assiologico. Per questo qualcuno si sente ancora più sviluppato dei nostri predecessori, supposti medievali?

Ad ogni modo, i concetti storiografici che sorreggono la ricerca della storia moderna sono strumenti di formalizzazione, ma non riproduzioni della realtà, bensì organizzano un insieme di indizi in determinate categorie, ovvero li fanno confluire in relazioni tra determinate parole, le quali, a loro volta, esprimono ben precisi punti di vista sul caotico materiale storico che si presenta di fronte agli studiosi.

E dunque, fin dove ci si può spingere nell’applicare queste ed altre categorie nell’analisi storica di differenti contesti, anche lontani da quelli della formulazione di tali categorie? Brevemente: quanto senso ha parlare di quello che noi chiamiamo il “feudalesimo” giapponese (Marc Bloch), se il feudalesimo è un concetto arbitrario e prettamente europeo? Non è una proiezione fallace?
L’annalistica cinese, ad esempio, ha categorie e scansione temporale completamente diverse da quella europea, altre ancora da quelle bibliche, delle età del mondo etc. etc.
Ma quali preferire? Cosa legittima più l’utilizzo delle une piuttosto che delle altre?

Insomma, alla fine storia e scienza naturale sembrano accomunate dall’aspetto linguistico comune. Se la natura e la storia sono dei grossi “SCARABEI”, basi di materiale informe su cui dobbiamo disporre ed ordinare gruppi di parole collegate fra loro, ecco che si mostra l’aspetto interessante di quella che chiamiamo semantica (ma di tutta la discussione sul linguaggio in generale), in quanto indagine di questa disposizione. Poi, in realtà, la tesi per cui il linguaggio ritaglia o segmenta l’esperienza in modi differenti è molto problematica (non distinguere tra teoria e linguaggio conduce ad una specie di monadologia dei significati: ognuno ha i suoi ed è chiuso nella sua crisalide; e rende anche difficile una controllabilità delle teorie scientifiche che non sia circolare etc. etc.), ma cosa fare? Possiamo anche seguire Quine nel dichiarare i significati superflui, accontentandoci del fatto che, se dico “martello”, il mio vicino nella maggioranza dei casi mi passa un “martello”. Stimolo – Risposta. Una tale prospettiva comporterebbe però la riduzione delle nostre asserzioni a puro noise makig, subvocalizzazioni prive di significato.
Nondimeno se non vogliamo ridurci ad una prospettiva di input-output di stimoli sonori, dobbiamo considerare la semantica, attraverso cui (forse è tautologico) sembra dover mediarsi la dimensione di senso delle cose. Se le cose possono avere un significato, questo sembra dover passare in buona parte inevitabilmente dalle parole.

Come il significato entri e passi attraverso le parole non si sa, ma anche il fatto che uno subvocalizzi “martello” e l’altro glielo passi porgendoglielo, invece di tirarglielo in testa, continua a restarmi abbondantemente oscuro. [quest'ultima frase contiene troppi glielo].